Ritiro del clero

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Ritiro del clero

Seminario, 21 settembre 2020

 

TRA VOI NON È COSI’ (Marco 10,43)

Un saluto cordiale a tutti. Sono molto contento di trovarci insieme, all’inizio del nuovo anno pastorale. La pandemia ancora presente ci sta sconvolgendo tutti, nessuno escluso, a livello personale, sociale e comunitario. Ecco perché è mio desiderio che in quest’anno, passo dopo passo, affrontare la vita a la pastorale con maggior consapevolezza delle forze che abbiamo e con più serenità e tranquillità, valorizzando meglio le opportunità di incontro e di relazione tra di noi e con gli altri. Per fare ciò è necessario dedicare ancora più tempo e spazio al dialogo con il Signore e all’incontro comunitario e fraterno tra di noi presbiteri. Non dobbiamo mai dimenticare che l’ordinazione ci ha inseriti nel presbiterio e pertanto siamo consanguinei, congiunti, perché parte di una stessa famiglia.

Nella Veglia di preghiera per l’avvio del nuovo anno pastorale, ho concluso il messaggio iniziale riproponendovi la domanda del profeta Isaia: “Sentinella, quanto resta della notte?” (21,11). Tutti noi consacrati e in particolare voi presbiteri siete per le vostre comunità le sentinelle che sono in attesa dell’aurora, della speranza che Dio viene e non ci abbandona mai. Non abbiate paura, anche se è ancora notte, di rimanere al vostro posto. Lo sappiamo bene: la notte è ancora presente e c’è ancora molta paura, fatiche e difficoltà. Non perdete mai la speranza e la fiducia che Dio c’è ed è presente. Camminate verso di Lui, per primi, tracciate la strada e aiutate le comunità a seguire il Signore.

Per vivere con ancora più fede e consapevolezza questo tempo, vi invito a lasciarvi guidare dalla Parola di Dio viva ed attuale. Come ho scritto nella lettera pastorale da Babele a Pentecoste, sono stato colpito in questo tempo di pandemia da alcune fatiche che anche noi consacrati abbiamo vissuto. Passati in modo repentino e inaspettato a cambiare ‘radicalmente’ il nostro stile di vita e a reinventare le giornate e le relazioni con le persone, non sempre siamo riusciti a tirar fuori il meglio di noi stessi. Non è capitato solo a noi; tante altre persone e nuclei familiari hanno vissuto la stessa fatica. Nel capitolo III della lettera pastorale ‘una profezia che cambia la storia. Per una comunità cristiana alternativa’, mi sono soffermato su alcuni aspetti che ritengo ancora difficili da mettere al centro della nostra vita e dell’azione pastorale, e che hanno bisogno di essere illuminati dalla Parola del Signore. Tra questi ritengo il più necessario la comunione e la fraternità nella Chiesa e nel presbiterio. “Perché non sempre siamo riusciti a favorire la comunione e la fraternità tra noi. Nel rispetto delle diverse situazioni di vita, quali segni concreti possiamo porre per testimoniare l’amore, l’amicizia, la stima reciproca che dovrebbero caratterizzare tutti i battezzati? Talvolta, è capitato anche a noi preti, che invece di favorire la comunione e la fraternità, ci siamo lasciati prendere dall’essere ‘censori’ gli uni gli altri, con atteggiamenti di critica e di poca carità fraterna” (n. 31). Come titolo di questa meditazione ho scelto un’espressione di Gesù riportata dall’evangelista Marco: “Tra voi non è così” (10,43). Se vogliamo creare e alimentare una comunità cristiana alternativa, come ci descrivono gli Atti degli Apostoli (2,42-47), dobbiamo partire da noi vescovi e preti, chiamati a partecipare in prima persona al sacerdozio di Cristo, attraverso l’ordinazione, per essere le sentinelle e le guide autorevoli delle nostre comunità.

 

° Marco 10,42-45

Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.

La discussione tra i discepoli era stata furibonda dopo che due di loro, Giacomo e Giovanni, avevano chiesto a Gesù di essere considerati più degli altri, ragionando secondo la prospettiva di un potere umano e politico. Avevano sbagliato la mira, ma non perché avevano puntato troppo in alto, ma perché non avevano mirato in basso, dimostrando di non comprendere l’insegnamento e lo stile di vita di Gesù. Anche nel Regno dei cieli c’è una gerarchia, così come è necessaria nella Chiesa e nella comunità cristiana. Ci sono pure i primi posti, ma non sono dove uno se li immagina. La gerarchia evangelica si costruisce in senso inverso. L’autorità del discepolo si deve distanziare da quella mondana, così come il modo di agire del discepolo, in ogni momento e situazione della vita deve essere diverso. ‘Tra voi non è così, ovvero, se è così, voi non potete essere miei discepoli né la mia comunità’. Il testo non dice, come fanno certe traduzioni, tra voi non sia così, ma è così! Non è, infatti, un augurio o un comando, ma una constatazione. Come ci ricorda il v angelo di Giovanni: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete (e non avrete!9 amore gli uni gli altri” (13,35). Il discepolo, se vuole conformarsi al maestro, è chiamato a servire i fratelli e la comunità. Se desidera assumere la sua stessa vita, è chiamato a vivere come Lui che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (10,45).

Qui sta la vera ‘costituzione’ che Gesù ha dato alla sua Chiesa. Questa è la vera rivoluzione, la riforma e il rinnovamento che siamo chiamati ad attuare oggi. Già papa Paolo VI, nella sua prima enciclica Ecclesiam suam – citata nell’Evangelii Gaudium al n. 26-27 – affermava: “Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in una accresciuta fedeltà alla sua vocazione”. Per ogni cristiano, per voi preti e diaconi, per me vescovo, il rinnovamento ha un punto di partenza ben preciso che non possiamo mai eludere: la conversione. La Chiesa è una comunità di fratelli e di sorelle che si servono e si amano, come ha fatto Gesù. Nella Chiesa il servizio è costitutivo della stessa identità. Nella Chiesa non ci sono meritocrazie; non c’è bisogno di fare carriera, di privilegi, di titoli o di onori. Occorre essere servitori di tutti, amare e rispettare tutti, confratelli compresi. Qui sta il fondamento della comunità cristiana che desideriamo costruire nel prossimo futuro.

 

° 1Corinzi 13,1-13

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità.

Brano tra i più conosciuti e citati del Nuovo Testamento: l’INNO alla CARITA’. La 1 Lettera ai Corinzi, scritta da san Paolo verso il 54/55, risponde a precise questioni e problemi presenti nella comunità, in merito alla declinazione del cristianesimo nei differenti ambiti e ambienti di vita. Dopo aver fondato le Chiese di Filippi e Tessalonica, Paolo arriva nella grande metropoli di Corinto e vi rimane per più di un anno. Qui avviene l’incontro tra la fede cristiana e la cultura ellenistica. Sappiamo che ogni inculturazione porta con sé pericoli sincretistici e deviazioni dottrinali che sono una minaccia per la fede. Li richiamo perché sempre attuali.

° Un primo problema è dato dal culto della personalità del predicatore a deterioramento della centralità salvifica di Cristo. Paolo ridimensiona il ruolo del predicatore e del ministro di Dio, invitando a fare sempre riferimento a Cristo.

° Si nota, poi, una ricerca appassionata della sapienza, da applicarsi anche alle modalità di incontro con il Signore, con il rischio che grazie alle proprie doti e capacità intellettuali e di introspezione, l’uomo riesca a guadagnarsi la salvezza. Ce lo ha ricordato papa Francesco nell’esortazione apostolica Gaudete et Exultate, mettendoci in guardia dai nemici della santità, primo fra tutti lo Gnosticismo, “dove il soggetto rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti” (n. 36).

° I cristiani di Corinto consideravano e vivevano i sacramenti come riti magici che permettono di appropriarsi a forze divine per garantirsi la salvezza invece che come doni e punti di partenza per un cammino spirituale e di conversione incontro al Signore, non favorendo così l’annuncio della salvezza portato da Gesù.

Di fonte a questi problemi, Paolo espone l’Inno all’amore di Dio che, come dice nel versetto conclusivo ‘è la via più sublime’ per arrivare all’incontro con Cristo. E’ la via perché è un cammino da percorrere e da praticare, da vivere concretamente; è sublime perché è il dono più grande, il dono dei doni, senza il quale tutti gli altri doni, carismi compresi, perdono valore e significato. Prima di entrare nella comprensione dell’inno, faccio un’ulteriore considerazione. Paolo usa il termine agape. E’ una scelta terminologica ben precisa per sottolineare l’aspetto della donazione, della consacrazione di sé all’altro e della fraternità, prendendo le distanze dall’altro termine greco eros, che lega il significato al possesso, al godimento e all’appagamento personale. Paolo non vuol entrare in discussione con la cultura del tempo, ma vuol aiutare a comprendere i diversi aspetti che costituiscono l’amore. Non mi soffermo sulla descrizione che fa Paolo del vero amore, dell’amore agapico. Ci sono molti commenti dell’inno che possiamo consultare. Desidero indicarvi il commento di papa Francesco nell’Amoris Laetitia al capitolo IV (nn. 89-119) sull’amore che viene consacrato nel matrimonio. L’amore per Paolo non è un sentimento ma è fare il bene, voler bene all’altro. L’amore, ricorda sant’Ignazio, si deve porre più sulle opere che nelle parole.

Il brano si divide in tre parti:

  • 1-3 il primato dell’amore
  • 4-7 le qualità dell’amore
  • 8-13 la durata eterna dell’amore.

° I primi tre versetti si possono così riassumere: senza amore non siamo nulla. La vita cristiana nasce dall’amore che Dio ha riversato nei nostri cuori per mezzo di Gesù e si nutre costantemente di questo amore. Potremmo essere le persone più brave, più intelligenti, più operose, all’avanguardia su tutto e su tutti, ma se non siamo mossi dall’amore di Gesù, tutto è inutile. L’autenticità della nostra fede non dipende dall’importanza delle cose che facciamo o dal ruolo che esercitiamo, ma dalle motivazioni che ci spingono ad agire e a servire i fratelli. Il Signore ci chiede un amore gratuito e incondizionato verso Dio e verso i fratelli. Domandiamoci: dove si radica la mia fede? Su cosa si fonda il mio donarmi agli altri e al Signore?

° Nel descrivere le qualità, le caratteristiche dell’amore, Paolo usa 15 verbi, di cui sette sono in positivo e otto in negativo. In questo modo l’amore è definito in ciò che è e in ciò che non è, in ciò che fa e in ciò che non fa. Siamo invitati anche noi a considerare i frutti dell’amore e i sentimenti che esso ispira. Pazienza e ricerca del bene ne sono gli orizzonti, perché non si cerca il proprio interesse, non si tiene conto del male ricevuto. La condivisione, l’unione, la compassione e la ricerca della verità sono il nutrimento. Il perdono, la speranza e la fiducia sono le dimensioni e la totalità dell’amore che viene espresso per quattro volte con ‘tutto’. L’amore accoglie sotto il proprio tetto tutto l’altro, così com’è, perché sa farsi carico di tutto. Queste 15 caratteristiche sono anche il ritratto di Dio e sono l’esperienza che noi abbiamo di Gesù: Lui ci ha amati così! Il dono dello Spirto Santo darà anche a noi la forza di vivere e di fare altrettanto, superando le inevitabili invidie, gelosie e divisioni. Molti credenti di Corinto si sono gonfiasti di orgoglio a causa dei doni ricevuti.

° Gli ultimi versetti dell’Inno sottolineano il carattere eterno dell’amore. Procedendo con delle antitesi, Paolo confronta lo stato di imperfezione di ogni scienza e sapienza umana con la prospettiva escatologica. Nessuna persona si deve ritenere arrivata, perché rimaniamo sempre delle creature deboli e fragili, in cammino verso la verità. Non ci può stare l’autosufficienza e la vanagloria. Paolo ci invita a passare dalla condizione ‘infantile’ della fede all’età adulta, con la piena consapevolezza che tra tutti i doni e carismi ricevuti, tre sono i più importanti: fede, speranza e carità … ma tra questi è l’amore che dà senso e pienezza a tutto.

L’amore non è un soprammobile da spolverare ogni tanto o un talismano o un oggetto prezioso da custodire con cura, magari riponendolo in una cassetta di sicurezza. È un dono, un percorso, la via

– ricorda san Paolo – una relazione rinnovata tra di noi. È la via che Dio, tramite il suo Figlio Gesù, ha fatto conosce all’umanità, facendo irruzione nella nostra storia. E’ un dono che provoca al cambiamento radicale della vita; è la carta di identità di ogni cristiano, in primis, la carta d’identità di noi preti. L’amore cristiano è un rovesciamento della direzione dell’amore umano, che va sempre dal basso verso l’alto, dal più imperfetto verso la perfezione. Nella lettera ai Filippesi (2,5-11) san Paolo ci descrive la logica dell’incarnazione come un movimento dall’alto verso il basso, dal superiore all’inferiore. Dio si è donato totalmente a noi perché è amore agapico, amore che si dona gratuitamente, abbassandosi fino allo svuotamento, alla kénosi, fino a diventare compassione, coinvolgendosi con i più poveri e con chi sbaglia. Solamente partendo da questa prospettiva possiamo comprendere e iniziare a vivere i 15 verbi che descrivono l’amore cristiano, permettendoci di immedesimarci nel Signore Gesù. Per aiutarvi nella meditazione personale, richiamo due aspetti che mi sembrano utili per noi sacerdoti, verificando il nostro ministero, alla luce della Parola che abbiamo ascoltato.

° Primo aspetto: la relazione con le persone delle nostre comunità, il nostro essere pastori, che – come ci ricorda la Pastores dabo vobis – ci porta a vivere l’amore verso gli altri che diventa carità pastorale “principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività del sacerdote” (n. 23). Cosa significa essere preti capaci di carità pastorale? In quali gesti si può tradurre e vivere la carità pastorale? Ricordo una delle 15 caratteristiche dell’amore: l’amabilità (v.6), aschemònei, il rendersi amabili. Ai Filippesi Paolo raccomandava: “La vostra amabilità sia nota a tutti” (4,5). È un invito da prendere sul serio. Paolo parla di un amore che non è rude, scortese o duro nel tratto, ma che si fa voler bene, trattando gli altri con dolcezza, cortesia e gentilezza. La pastorale è soprattutto una questione di cuore. Facciamoci voler bene e non costringiamo le persone a sopportarci con continui esercizi di pazienza. Certo, ognuno di noi ha il proprio carattere con qualche spigolosità, difetti e debolezze. Ma il nostro compito è di far trasparire dalla vita il Signore Gesù. Ricordiamo quanto Paolo diceva di sé: “Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io ma Cristo vive in me” (Galati 20,20).

 

Essere amabili non è una stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore” (AL 99). Il rischio, anche per noi, è di giustificarci, dicendo ‘sono

 

fatto così’, e nel frattempo, a causa della scortesia, allontaniamo le persone dalla parrocchia e dalle attività pastorali. Sappiamo quanto è importante mettersi a servizio degli altri, spenderci per loro, ma non sempre siamo attenti a chiederci quanto siamo amabili, quanto ci facciamo voler bene dagli altri. Spesso le relazioni pastorali si complicano quando ci trinceriamo dietro il ruolo che svolgiamo, quando ci sentiamo autorizzati a rispondere male, a trattar male le persone, quando siamo sgarbati e non sempre sinceri o quando rispondiamo senza ascoltare. Noi pastori siamo chiamati a servire e modellare la comunità cristiana … anche attraverso il nostro stile e il nostro modo di fare E la gente lo capisce subito e lo ricorda negli anni. Si tratta, in definitiva, di essere amabili, affabili e magnanimi, facendo sentire a tutti la bellezza di una vita impostata sul Vangelo. Dobbiamo far sentire che il Signore attraverso di noi si prede cura e ama tutti.

Secondo aspetto: l’amore, la fraternità e l’amicizia tra noi presbiteri. Sento che è importante rifletterci sopra, anche nelle congreghe e negli incontri di unità pastorale. Se la nostra fede si basa sul Cristo, allora dobbiamo accettare che l’amore tutto scusa, non giudica, perdona e sopporta. E questo non per equilibrismo e nemmeno perché altrimenti la gente mormora e ci critica, ma perché all’inizio del nostro ministero abbiamo fatto una scelta radicale di adesione e di amore al Signore. Siamo chiamati all’amore del Signore e contemporaneamente alla fraternità e all’amore tra di noi. Dobbiamo essere, pertanto, uomini di comunione a qualsiasi costo!

Se manca l’amore tra di noi preti, se non siamo capaci di sopportarci, di parlarci e di perdonarci … vuol dire che non siamo immagine del Cristo, che non siamo più in grado di vivere e di raccontarci l’esperienza di Gesù, perché pensiamo solo a noi stessi. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se AVETE amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13,35). Non è scritto avrete, come nell’edizione del 1974, ma avete. Non è un esortativo e nemmeno un comando! È una constatazione di quello che siamo chiamati ad essere e a vivere. Lo so che sto toccando un tasto non facile, e so anche che se non arriviamo a vivere così, rischiamo di vanificare buona parte della nostra testimonianza e del ministero pastorale. Anche noi richiamo di cadere nel chiacchiericcio, a sottolineare quello che non va nell’altro, a giudicare ogni parola che dice o ogni cosa che fa, ogni scelta, criticando tutto e tutti. In questo modo allontaniamo i confratelli e ci isoliamo dagli altri. Dio non critica mai quello che noi facciamo, perché ci ama! Vi invito a leggere e meditare l’Agnelus di papa Francesco di Domenica 6 settembre 20020. Riassume qui tante considerazioni che ha fatto in numerosi incontri con vescovi, sacerdoti, persone consacrate e seminaristi. Ne riporto solo una parte. “Questo insegnamento di Gesù ci aiuta tanto, perché – pensiamo ad un esempio – quando noi vediamo uno sbaglio, un difetto, una scivolata, in quel fratello o quella sorella, di solito la prima cosa che facciamo è andare a raccontarlo agli altri, a chiacchierare. E le chiacchiere chiudono il cuore alla comunità, chiudono l’unità della Chiesa. Il grande chiacchierone è il diavolo, che sempre va dicendo le cose brutte degli altri, perché lui è il bugiardo che cerca di disunire la Chiesa, di allontanare i fratelli e non fare comunità. Per favore, fratelli e sorelle, facciamo uno sforzo per non chiacchierare. Il chiacchiericcio è una peste più brutta del Covid! Facciamo uno sforzo: niente chiacchiere. […] La Vergine Maria ci aiuti a fare della correzione fraterna una sana abitudine, affinché nelle nostre comunità si possano instaurare sempre nuove relazioni fraterne, fondate sul perdono reciproco e soprattutto sulla forza invincibile della misericordia di Dio”.

 

Carissimi, se ci vogliamo un po’ più di bene, non useremo così facilmente la critica. La critica è amarezza, delusione perché non siamo come l’altro. La critica rivela la meschinità del nostro egoismo che è il principio di tutte le nostre piccolezze. Concludo con una bella espressione di Bonheffer: “L’amore si vive nel discepolato, sulla strada accanto a Cristo. E questo percorso è così intenso che alla fine amore e sequela si identificano l’uno con l’altra. Essere veri discepoli di Cristo significa amare come Lui ha fatto”. Lo auguro di cuore a tutti.

 

+ Giuseppe Pellegrini, vescovo

Pordenone
21/09/2020
33170 Pordenone, Friuli Venezia Giulia Italia