Educare al bene comune

Relatore Giuseppe Savagnone - coordina la serata mons. Luciano Padovese - conclusioni mons. Giuseppe Pellegrini

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È curioso osservare che proprio nell’anno in cui celebriamo il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, il nostro Paese vive una delle crisi più gravi della propria storia nazionale. Non è solo crisi economica, del debito pubblico, di fiducia dei mercati finanziari e della nostra capacità di farne fronte. In crisi c’è qualcosa di più profondo, qualcosa che va oltre il grave momento che stiamo vivendo; in crisi è il senso di appartenenza a una comunità più ampia, insomma qualcosa che va oltre il singolo individuo. Una crisi che viene da lontano, dall’incapacità della classe dirigente di dire agli italiani la verità sulle condizioni del Paese; che non si può continuare a vivere al disopra delle nostre possibilità; che il benessere di cui godiamo, non può essere fatto pagare alle future generazioni; che benessere e ricchezza si costruiscono piano piano con il duro lavoro, con la fatica di ogni giorno e non attraverso soluzioni facili, di “finanza più o meno creativa”. Intimamente però ognuno di noi in realtà sa cosa c’è che non va, ma a volte preferiamo fare finta di non sapere, così ci illudiamo, non ci comportiamo da persone responsabili. È più che mai necessario aprire gli occhi, capire le cose, avere il giusto senso critico.
 
Chiedere che ognuno faccia il proprio dovere secondo le proprie possibilità; esigere giustizia ed equità per i sacrifici che sono chiesti e non scaricare sui “soliti noti” il prezzo da pagare. Dire basta alle tante, troppe astuzie di cui è intriso il nostro Paese, dove i deboli e gli onesti sono spesso confusi con i “meno furbi” e non molto più semplicemente con persone che fanno il loro dovere. Ecco allora che proprio per non tradire il sacrificio di tanti che ci hanno preceduto e che si sono sacrificati, ma soprattutto per non deludere le generazioni che verranno dopo di noi, abbiamo il dovere di riprendere quel “filo smarrito”, di farcene carico, lavorare per la costruzione di quel bene comune cui spesso facciamo richiamo ma che altrettanto spesso dimentichiamo. Recuperare cioè quella capacità di partecipazione alla politica, al confronto democratico e civile avendo consapevolezza individuale e collettiva, che siamo noi gli artefici del nostro futuro!
 
Ecco allora che se sapremo fare riferimento alle cose migliori che sono state realizzate da quelli che ci hanno preceduto, risponderemo ai timori e daremo risposte ai tanti problemi che oggi ci lasciano in ansia. Fra i tanti problemi in cui il nostro Paese si dibatte, la questione del lavoro a mio parere è centrale, proprio perché attraverso il lavoro ogni singola persona realizza se stesso nella famiglia e nella comunità, assume cittadinanza e contribuisce alla costruzione della “casa comune”.
 
È un bene allora che si riprenda una discussione forte su quest’argomento, così com’è un bene che si avanzino proposte e soluzioni utili a far crescere l’occupazione in particolare dei giovani e delle donne. Per troppo tempo la questione del lavoro è scivolata in secondo piano, si era creata l’illusione che il futuro del lavoro sarebbe stato incentrato su un’economia basata sui servizi; che settori come l’agricoltura e l’industria non avrebbero più avuto l’importanza e il peso del passato. Oggi che questo dibattito sembra essere finito, possiamo dirlo ad alta voce senza il rischio di essere considerati fuori dal tempo; fortunatamente l’Italia continua ad avere ancora un sistema produttivo molto legato all’industria e in particolare alla manifattura.
 
Abbiamo bisogno di continuare ad avere alti livelli occupazionali dobbiamo fare di tutto per difendere il patrimonio industriale, rimanere il secondo Paese manifatturiero in Europa dopo la Germania. Le affermazioni di principio però non bastano, per rispondere alle tante domande che ci sono poste. Si deve andare oltre le soluzioni del passato, servono riforme che da troppo sono rinviate, servono servizi a supporto delle imprese e delle famiglie, serve investire sulla formazione delle risorse umane, perché se la competizione è più difficile, non si può continuare a tenere fuori dal mercato del lavoro i giovani più qualificati e meglio predisposti a cogliere gli elementi di novità che il mondo offre. Chiunque si occupi di problemi del lavoro sa che il mondo non è più quello di dieci anni fa, speculare sulla giusta insoddisfazione di tante persone è un’operazione miope che non porta da nessuna parte.
 
Il mondo del lavoro vive una stagione di grandi trasformazioni, che ci interrogano e ci mettono in crisi, a Pordenone, in Friuli e nel Nord-Est. Nel recente passato abbiamo avuto lavoro in abbondanza, (ricordiamo i cartelli davanti alle fabbriche con la scritta cercasi personale) ma oggi non è più così, dobbiamo riconoscerlo. Il lavoro e la sua suddivisione, anche a Pordenone, non hanno più le caratteristiche di un tempo; quando una persona iniziava a lavorare, per quasi tutta la vita ben poco sarebbe cambiato. Oggi impera flessibilità, precarietà, nuove forme di lavoro; a tempo, a chiamata, a progetto, a part-time ecc. Soprattutto, il lavoro si è distribuito a livello internazionale con l’ingresso di Paesi emergenti che ne erano pressoché esclusi.
 
Come rispondere allora a questi grandi cambiamenti i cui effetti ancora non si conoscono? Non ci sono risposte facili a problemi difficili, la situazione è grave, e richiede maggiore senso di responsabilità, la capacità di guardare agli interessi collettivi elaborando soluzioni moderne e capaci di interpretare al meglio i grandi cambiamenti che caratterizzano la nostra epoca. La storia del movimento sindacale italiano dimostra che sempre il sindacato confederale si è fatto carico di interpretare il cambiamento e di adottare strumenti e modalità consone ai mutamenti sociali. Ecco allora che di fronte ai gravi problemi serve recuperare quello spirito che ha animato i nostri predecessori.
 
Per questo nei mesi scorsi, anziché abbandonarci alla sterile protesta contro la crisi e i licenziamenti, ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo sottoscritto con gli industriali un accordo per il rilancio delle relazioni industriali, il riposizionamento delle nostre imprese, il recupero della competitività e produttività, il rilancio della contrattazione collettiva di secondo livello, nelle aziende e nel territorio, la difesa dell’occupazione, la possibilità di avere maggiori occasioni di lavoro per le donne e i giovani. Come saggiamente ha detto il nostro Presidente della Repubblica, si tratta di agire con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno, dell’impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo. Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espressione delle persone, delle comunità locali, dei corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà. Non rassegnati quindi, non rinunciando all’idea che noi non siamo solo noi stessi, ma siamo anche attraverso gli altri e che apparteniamo a comunità e collettività per volontà e interdipendenza dei fatti. convinti che ce la possiamo fare.