Omelia del Vescovo Giuseppe alla Messa del Crisma del 24 marzo 2016

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 Diocesi di Concordia-Pordenone

Omelia Giovedì Santo – Messa del Crisma Pordenone  24 marzo 2016   Il presbitero, uomo di misericordia     Carissimi fratelli e sorelle nella fede provenienti da diverse parrocchie della diocesi, carissimi fratelli nel sacerdozio e nel diaconato, carissime consacrate e consacrati, siamo riuniti nella Chiesa concattedrale per celebrare la Messa Crismale nella quale noi consacrati facciamo memoria della nostra ordinazione e dell’impegno a servire Cristo nei fratelli. Questa celebrazione si inserisce nel cammino del Giubileo della misericordia che vogliamo vivere con fede, intensità e apertura di cuore. “Un Anno Santo di misericordia – scrive papa Francesco – è questo quanto viene annunciato dal Signore e che noi desideriamo vivere. Questo Anno Santo porta con sé la ricchezza della misericordia di Gesù che risuona nelle parole del profeta Isaia” (MV 16). Gesù, nel Vangelo, proclama “un anno di grazia del Signore” (Luca 4,19), un tempo di benevolenza, di misericordia e di salvezza che Dio offre all’umanità e che si realizza definitivamente nella missione del suo Figlio Gesù. Anche noi in quest’anno particolare siamo chiamati, come ministri, ad annunciare e a “tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre” (MV 3). In particolare in questa celebrazione siamo chiamati a vivere l’oggi’ di Gesù e a impegnarci perché il suo ministero di salvezza possa raggiungere tutta l’umanità. L’evangelista Luca ci dice che dopo aver letto il testo di Isaia, Gesù “riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga gli occhi di tutti erano fissi su di lui” (4,20). È una scena significativa, carica di tensione ma anche piena di stupore e di contemplazione estatica di Gesù. Possiamo dire che i presenti erano afferrati da lui, perché emanava uno splendore interiore che traspariva dalle sue parole e dal modo con cui accostava le persone. Gesù è l’incarnazione dell’amore del Padre e della bellezza di Dio. Il suo fascino è tale perché si fa vicino ai poveri, ai soffrenti e ai peccatori, rivelando così il volto umano di Dio che si china sui piccoli e i poveri. Anche noi oggi, ascoltando il brano di Luca, siamo invitati a fissare lo sguardo su Gesù, a lasciarci attrarre e affascinare dal suo amore misericordioso, così come ci è capitato nel giorno della nostra ordinazione. Siamo pure chiamati a riscoprire e vivere il nostro ministero ordinato come un servizio che fa sperimentare a coloro che incontriamo, l’amore e la misericordia di Dio Padre.   Tutta la missione di Gesù, ci narra l’evangelista Luca, si attua all’interno di due realtà: quella della sofferenza umana e quella dello Spirito di Dio. Rileggendo il profeta Isaia, Gesù parla di poveri, prigionieri, ciechi e oppressi. Il testo più ampio di Isaia, nella prima lettura, descrivendo la varietà delle sofferenze umane, ci parla anche di cuori spezzati e mesti, di schiavi e di afflitti. Gesù, dichiarandosi mandato per questa gente che soffre, entra nel vivo della realtà umana per annunciare la buona notizia del Vangelo. Anche davanti all’interrogativo perplesso del Battista, Gesù risponde riprendendo queste azioni: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia” (Luca 7,22). Tuttavia c’è un’altra realtà richiamata dalle parole di Gesù: la realtà dell’amore di Dio. Gesù fa derivare la sua missione dall’unzione dello Spirito Santo, presentandosi come l’unto, imbevuto dello Spirito del Signore. L’amore di Dio è un dono fedele che non si scoraggia di fronte alla infedeltà dell’uomo. Proprio perché radicato nell’amore di Dio, Gesù, si immerge profondamente nella sofferenza umana. Alla luce della missione di Gesù e dell’anno giubilare, in questa messa crismale vogliamo dunque considerare la nostra missione di servitori e ministri della misericordia. Il presbitero e il diacono vivono in pienezza e per primi, quell’espressione suprema dell’amore e della misericordia di Gesù che, secondo Giovanni, come vivremo nella celebrazione di questa sera, è il lavare i piedi dei suoi discepoli, affinché essi imparino a lavarsi i piedi l’un l’altro. Nell’omelia della messa crismale del 2013, papa Francesco ricordava a tutti noi consacrati che l’unzione ricevuta nell’ordinazione è destinata a ungere il popolo di Dio di cui siamo servitori, in particolare i poveri, i prigionieri e gli oppressi. Quel che abbiamo ricevuto per grazia dal Signore, non è per noi o per il nostro tornaconto personale, ma deve raggiungere le periferie esistenziali dell’umanità. Proprio in questa omelia è risuonato il caloroso l’invito: “Questo vi chiedo: siate pastori con l’odore delle pecore; … la nostra gente possa ricevere attraverso le nostre parole e opere quest’olio di gioia che ci è venuto a portare Gesù”. Noi, presbiteri e diaconi siamo l’oggi di Cristo, proprio perché a noi è stato donato lo Spirito e ci è stata affidata la missione di portare al mondo l’amore e la misericordia di Dio. Non abbiate paura, carissimi confratelli, di riscoprire la radice profonda del nostro ministero ordinato, che sta nell’amore del pastore che dona se stesso nel nome di Gesù, con la forza dello Spirito Santo, condividendo ogni debolezza umana. Per primi, allora, siamo chiamati ad essere ministri di misericordia, annunciando la misericordia che il Signore ci ha donato, a tutti coloro che quotidianamente serviamo nel ministero. Diceva papa Francesco: “i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia. Il confessore, ad esempio, corre sempre il pericolo di essere o troppo rigorista o troppo lasso. Nessuno dei due è misericordioso, perché́ nessuno dei due si fa veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché́ lo rimette al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente “questo non è peccato” o cose simili. Le persone vanno accompagnate, le ferite vanno curate … I ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro … I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi(intervista al direttore di Civiltà Cattolica, agosto 2013). Vengono spontanee alcune domande: “Cosa significa vedere l’altro come Gesù? Agire come ha fatto Lui, amare e servire come Lui? I documenti del magistero, in particolare dal Concilio Vaticano II in poi, ci ricordano che “i presbiteri rappresentano Cristo pastore” (La formazione dei presbiteri, 9) e che “i presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù, capo e pastore” (Pastores dabo Vobis, 15). Non siamo comparse o attori che recitano una parte al posto di Gesù, ma come ci ricordava l’apostolo Paolo “ognuno ci consideri come servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (1 Corinzi 4,1). C’è una espressione sintetica che racchiude la spiritualità e il nostro servizio ministeriale: la carità pastoralepastoralis caritas dice Presbiterorun Ordinis 14 – che ci spinge ad immergerci nella società di oggi, complessa e secolarizzata e a farci carico di tutte le povertà della gente, con l’avvertenza di non perdere mai la specificità della nostra missione, per non trovarci ad essere ‘operatori sociali’. È necessario, proprio perché è l’atteggiamento di fondo del nostro ministero, l’anima della nostra identità sacerdotale, comprendere il senso profondo della ‘carità pastorale’, altrimenti si rischia di ridurla ad un atteggiamento puramente etico, morale o ad una metodologia pastorale. Giovanni Paolo II, in un’omelia del 1989 diceva che “La carità pastorale, che scaturisce soprattutto dall’Eucaristia, è quella virtù con la quale noi imitiamo Cristo nella sua donazione di sé e nel suo servizio. Non è soltanto quello che facciamo, ma il nostro dono di sé, che mostra l’amore di Cristo per il suo gregge. La carità pastorale determina il nostro modo di pensare e di agire, il nostro modo di rapportarci alla gente. … Se siamo chiamati ad imitare il dono di sé di Cristo, noi sacerdoti dobbiamo vivere ed agire in un modo che ci consenta di essere vicini a tutti i membri del gregge, dal più grande al più piccolo. Noi desideriamo dimorare in mezzo a loro, sia che siano ricchi o poveri, istruiti o bisognosi di educazione. Saremo pronti a dividere le loro gioie e i loro dolori, non soltanto nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere, ma anche insieme a loro, affinché attraverso la nostra presenza e il nostro ministero essi possano sperimentare l’amore di Dio” (Seoul 7 ottobre 1989). L’esortazione apostolica Pastores dabo Vobis consacra tre paragrafi alla carità pastorale (21-23), prendendo in esame le caratteristiche che nel presbitero richiamano una speciale conformazione con Cristo quale capo, sposo e pastore. Per comprenderne esattamente il significato, dobbiamo rifarci al termine “carità/amore”; carità è la definizione stessa di Dio. Con la grazia dell’ordinazione presbiterale il Signore ci ha conferito il potere di agire in Persona Christi. Non è una qualche aggiunta alla persona del prete o l’autorizzazione per esercitare una professione o una concessione. È una conformazione interiore a Cristo pastore, per cui il battezzato che viene ordinato non “fa” il prete ma “è” prete.  Questa grazia innerva, alimenta e vivifica tutta la vita e tutte le attività pastorali del presbitero. “Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo: dono gratuito dello Spirito Santo, e nello stesso tempo compito e appello alla risposta libera e responsabile del presbitero. Il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, ad immagine e in condivisione con il dono di Cristo” (PdV 23). Ognuno di noi vive situazione di vita e pastorali differenti e variegate, dove sono in gioco tante varianti della singola persona e delle situazioni che incontriamo. Tuttavia possiamo dire che la carità pastorale si raccoglie attorno ai tria munera: servizio della Parola di Dio, celebrazione dei sacramenti e dell’Eucaristia e educazione nella fede e nell’unità della Chiesa. “Questa stessa carità pastorale costituisce il principio interiore e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività del sacerdote. Grazie ad essa può trovare risposta l’essenziale e permanente esigenza dell’unità tra la vita interiore e le tante azioni e responsabilità del ministero, esigenza quanto mai urgente in un contesto socio-culturale ed ecclesiale fortemente segnato dalla complessità, dalla frammentarietà e dalla dispersività. Solo la concentrazione di ogni istante e di ogni gesto attorno alla scelta fondamentale e qualificante di « dare la vita per il gregge » può garantire questa unità vitale, indispensabile per l’armonia e per l’equilibrio spirituale del sacerdote” (PdV 23).   Nell’icona del Buon Pastore che dà la vita sono sintetizzati l’essere, la vita e il servizio ministeriale del presbitero. Credo importante, proprio in questo Anno Santo della misericordia fissare la nostra attenzione su di Lui, su Gesù Cristo capo e pastore e considerare anche tutte le fatiche e le difficoltà per vivere fino in fondo il nostro essere pastori e la nostra configurazione a Cristo pastore. Spesso in questi anni, papa Francesco, è ritornato sulla dimensione pastorale del nostro ministero. Qualcuno pensa che il papa se la prenda con noi consacrati… non lo penso e non lo credo. Papa Francesco ci ama, ci vuole bene e desidera che noi singolarmente e come Chiesa, diventiamo segni eloquenti dell’amore e della misericordia di Dio; per questo ci sprona e ci stimola con affetto. In una omelia a S. Marta, tutta dedicata al compito pastorale del ministro, diceva: “La priorità per i preti è quella di essere anzitutto pastori. Pasci. Sii pastore. Perché il Signore ci ha chiamati per questo. E le mani del vescovo sulla nostra testa è per essere pastori. Una domanda: Sono pastore, o sono un impiegato di questa ong che si chiama Chiesa? C’è una differenza. Sono pastore? Pasci. Pascola. Vai avanti” (6 marzo 2014). E ai nuovi vescovi diceva: “Scendete in mezzo ai vostri fedeli, anche nelle periferie delle vostre diocesi e in tutte quelle “periferie esistenziali” dove c’è sofferenza, solitudine, degrado umano. Presenza pastorale significa camminare con il Popolo di Dio: camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzarlo nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade” (19 settembre 2013). Ma è nell’Evangelii Gaudium che il papa, tracciando il cammino della Chiesa nei prossimi anni, si sofferma a riflettere sulle sfide che gli operatori pastorali devono affrontare nel contesto dell’attuale mondo globalizzato. Per aiutarci in questo cammino pone l’attenzione su alcune tentazioni che colpiscono gli operatori pastorali e che impediscono a noi consacrati di vivere fino in fondo la carità pastorale. Parla dell’accidia egoistica, del pessimismo sterile, della mondanità spirituale e della guerra tra di noi. Mali che si alimentano l’uno con l’altro e che così riassume: “Un’accentuazione dell’individualismo, una crisi di identità e un calo di fervore” (EG 78).    Per il nostro cammino personale e per la nostra vita spirituale mi sembra più giusto che fissiamo l’attenzione in positivo sul contenuto centrale della carità pastorale: il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa e all’umanità. Facciamo nostro, carissimi confratelli presbiteri e diaconi, quanto diceva san Paolo: “Per conto mio ben volentieri mi prodigherò, anzi consumerò me stesso per le vostre anime” (2 Corinzi 12,15); è l’amoris officium di cui parla S. Agostino. Il dono di sé non ha confini e il servizio ai fratelli diventa la prima, l’unica e la più grande preoccupazione e interesse del prete. È quel martirio quotidiano per cui il sacerdote si offre, come Cristo pane spezzato per il mondo. È il dare tutto di sé, nella consapevolezza che non si è dato nulla se non si è dato tutto. Ma è un dare tutto non solo per i pochi che vengono e che frequentano, ma anche per i molti che non si fanno vedere o che sono stati allontanati. Una sola pecorella che ritorna è la gioia del pastore, le molte che ancora mancano sono la sua passione. Proprio perché noi parliamo il linguaggio universale dell’amore che tutti comprendono piccoli e grandi, vicini e lontani, che ogni uomo e ogni donna sono da incontrare, da amare e da servire. Solo così potremo raccogliere dall’albero della carità pastorale il bellissimo frutto che è la gioia. Contenti di essere preti, contenti del ministero che svolgiamo, contenti che il Signore Gesù si serva di noi per annunciare l’amore misericordioso del Padre.   Un’ultima semplice considerazione. L’amore e la misericordia del Padre ci sprona ad essere anche noi, misericordiosi come Lui. Mentre vi ringrazio di cuore per il sostanzioso contributo che date da anni al fondo diocesano di solidarietà per persone e famiglie che soffrono per la persistente crisi economica e lavorativa, richiamo con forza un altro aspetto che ritengo necessario per le nostre comunità e anche per noi preti e diaconi. Mi riferisco all’accoglienza che siamo invitati a mettere in atto di profughi e rifugiati che arrivano nel nostro territorio. Papa Francesco più volte è ritornato su questo argomento. Anche noi, nelle nostre parrocchie, ne stiamo discutendo, ma con pochi risultati. Domenica, nella mesa delle Palme, il santo Padre ci ha nuovamente spronato, dicendo che “Gesù prova sulla sua pelle anche l’indifferenza, perché nessuno vuole assumersi la responsabilità del suo destino. E penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati, a coloro dei quali molti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino”. Non vogliamo e non voglio che anche NOI (comunità cristiane, parrocchie, gruppi, ma anche me vescovo, preti, diaconi, consacrati e consacrate) siamo tra questi ‘molti’. In questi mesi abbiamo aperto sette Porte Sante in diocesi e qualche altra resta da aprire. Supplichiamo il Signore che ci aiuti ad aprire anche le porte del nostro cuore e delle nostre case. E’ faticoso e difficile. Molti, anche nelle nostre parrocchie, fanno fatica a comprendere il valore e il significato dell’accoglienza. Vi prego: facciamo qualche passo significativo. Mi impegno anch’io, pubblicamente ad accogliere qualche rifugiato negli ambienti della curia diocesana. Sarà poca cosa. Ma è un piccolo e importante segno di amore e di misericordia che desidero offrire alle comunità cristiane, ai comuni e a tutto il nostro territorio.   Concludo con il saluto affettuoso al vescovo Ovidio, a voi cari confratelli presbiteri presenti e anche agli assenti per vari motivi, in particolare ai malati, agli anziani e a coloro che si trovano impegnati ad esercitare il ministero in altre Chiese. Ricordiamo don Lorenzo Barro che per la prima volta vive la messa del crismale nella diocesi sorella di Nacala. Un affettuoso saluto a voi diaconi permanenti e ai seminaristi con le vostre famiglie, ai religiosi e religiose e a tutti i fedeli laici provenienti dalle varie parrocchie, con una attenzione ai cresimandi. Saluto anche i sacerdoti e religiosi giunti in diocesi per prestare un servizio nel periodo pasquale. Desidero ricordare, infine, con sincera gratitudine, quanti oggi festeggiano un particolare anniversario di ordinazione sacerdotale.   Nel formulare a tutti voi e alle vostre comunità gli auguri di una Santa Pasqua, lasciatemi dire, cari confratelli, a nome dei vostri fedeli e dal più profondo del mio cuore una sola parola: grazie. Per il vostro ministero, ma soprattutto perché ci siete!                                                                          + Giuseppe Pellegrini, vescovo