Omelia Messa Crismale Giovedì Santo Pordenone 13 aprile 2017

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 Diocesi di Concordia-Pordenone

Omelia Giovedì Santo – Messa del CrismaPordenone  13 aprile 2017 

 

 

 I presbiteri: uomini tra la gente con l’odore delle pecore

  Desidero esprimere la grande gioia che provo nell’essere qui tutti insieme per vivere uno dei momenti più belli e significativi del nostro essere Chiesa: vescovi, presbiteri e diaconi, persone consacrate, seminaristi e rappresentanti di tutto il popolo santo di Dio. Sono presenti anche alcuni giovani cresimandi. Sentiamo vicini i nostri confratelli malati e anziani che non possono essere qui e anche coloro che non sono presenti. Un ricordo pieno di affetto ai nostri sacerdoti Fidei Donum in servizio presso le Chiese sorelle di Nyeri in Kenya, Nampula in Mozambico, Esmeraldas in Equador e Belèm in Brasile, così come i confratelli in servizio dei nostri emigranti all’estero. Un benvenuto e un grazie ai sacerdoti di altri paesi che vengono in aiuto alle nostre comunità per queste feste pasquali. Mi sento sollecitato dalla Parola di Dio e dalla peculiarità di questa celebrazione, che vede in particolare noi presbiteri insieme, per fare memoria del dono del ministero ordinato e per riaffermare gli impegni che ci siamo presi nel giorno dell’Ordinazione, di servire il popolo che ci è stato affidato, di vivere tra la nostra gente, consacrando tutto noi stessi a Dio per la salvezza dell’umanità (cfr. Rito di Ordinazione). Anche ai nostri giorni, sentiamo pressante l’invito a vivere il servizio ministeriale tra la gente, a condividere tutto noi stessi con le persone che la provvidenza ci ha posto accanto. Rilevante l’incipit della Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Non dimentichiamo che questo aspetto del nostro servizio ministeriale è anche il filo conduttore degli interventi di papa Francesco rivolti ai preti e ai vescovi. Nella sua prima omelia della messa del Crisma ci ha chiesto di essere “pastori con l’odore delle pecore … in modo tale che l’unzione giunga a tutti, anche alle periferie, là dove il nostro popolo fedele più lo attende ed apprezza”. Ai nuovi vescovi nel 2013 diceva: “Presenza pastorale significa camminare con il Popolo di Dio: camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzarlo nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade. Posto tra Dio e l’umanità, il prete è chiamato a camminare con la sua gente, indicando sempre il Signore come orizzonte e meta della vita. Siamo pertanto invitati tutti ad uscire per andare incontro all’altro, ad aprire la porta del nostro cuore ed entrare nelle case della gente per raggiungere le famiglie, gli ammalati, gli anziani e i giovani, là dove essi vivono, cercandoli e portando loro la bellezza dell’amore di Dio. E’ un compito di tutti i battezzati, in particolare di noi vescovi, preti, diaconi e consacrati far sentire alle persone la vicinanza di Dio e chinarci sulle ferite e sulle lacrime della nostra gente; non stancarci mai di aprire il nostro cuore e di tendere la mano a quanti ci chiedono aiuto, anche a quelli che stanno fuori dal recinto e sono lontani da noi.  All’inizio dell’essere presbiteri in mezzo al popolo di Dio, c’è l’iniziativa del Signore che ci ha chiamati e ci ha consacrati con l’unzione dello Spirito, inviandoci a portare a tutti la sua salvezza. “Lo Spirito del Signore Dio è su di me … e mi ha mandato a portare il lieto annunzio” (4,18), ci ha ricordato l’evangelista Luca nel brano appena ascoltato, descrivendo così la missione di Gesù che si svolge tra due realtà: quella dell’incontro con le persone da una parte, quella dello Spirito di Dio dall’altra. Gesù, leggendo il profeta Isaia, parla di alcune sofferenze che affliggono l’umanità. Il testo più ampio di Isaia, nella prima lettura, ci parla anche di cuori spezzati, di schiavi e di prigionieri, di abito da lutto e di spirito mesto. Gesù è mandato per essere vicino e per entrare nel vivo della vita e nel dolore degli esseri umani. Le parole di Gesù ci ricordano, anche, un’altra realtà: l’amore di Dio. La sua missione infatti deriva dall’unzione dello Spirito Santo e si presenta a noi come consacrato, imbevuto dallo Spirito. La vita di Gesù, proprio perché è radicata nella solidità dell’amore trinitario di Dio, che è un dono che non scoraggia di fronte alle infedeltà dell’uomo, si immerge profondamente e coraggiosamente nella quotidianità della vita delle persone, entrando nelle situazioni concrete dell’esistenza e penetrando i sentimenti più profondi e le situazioni più disarmanti. Questa azione di Dio si realizza nell’oggi di Gesù, termine che indica l’attualità della salvezza che non può essere rinviata, secondo quanto Gesù ha detto a Zaccheo: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza” (Luca 19,9). L’oggi ci ricorda che la novità è Gesù e che la storia dell’umanità sta attraversando un momento di grazia particolare, perché il nostro tempo è l’oggi di Dio. In Gesù, Dio stesso visita il suo popolo, assumendo il volto della misericordia e dell’amore, facendosi prossimo a tutti.  Carissimi confratelli, anche a noi, nel giorno dell’ordinazione, è stato fatto un dono grandissimo, un dono che coinvolge tutto il nostro essere ed agire, tutto il tempo delle nostre giornate e tutte le dimensioni della nostra persona. Un dono che ci lega strettamente al Signore Gesù; un dono da conservare e custodire gelosamente, ma che ci spinge anche ad uscire, ad incontrare e servire le persone che il Signore ci ha affidato. Noi siamo qui tutti insieme quest’oggi, non solo per esprimere l’unità della nostra Chiesa locale e del presbiterio attorno al Vescovo, ma per ribadire che il nostro sacerdozio – sacerdozio universale di tutti i battezzati, al servizio del quale è destinato il nostro sacerdozio ministeriale – è il sacerdozio di Cristo. Siamo qui per rinnovare la memoria che la nostra missione è la missione di Cristo. Senza questo strettissimo legame con Gesù, tutto quello che facciamo rischia di essere un correre ed un affaticarci invano. Una missione di annuncio e di liberazione, ci ricorda Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium: “La Chiesa in uscita …sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani, e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre” (n. 24). Contemplando lo stile di vita di Gesù e accogliendo la testimonianza di papa Francesco, desiderio evidenziare e proporre anche per il nostro ministero sacerdotale alcune caratteristiche, atteggiamenti ed aspetti rilevanti, necessari e indispensabili per servire una ‘Chiesa in uscita’, per vivere il nostro ministero come fratelli, “esperti di umanità”, secondo la celebre definizione sulla Chiesa di papa Paolo VI all’ONU nel 1965.            Come prima caratteristica, sottolineo un’espressione cara all’Evangelii Gaudium: uscire da sé. “La gioia del Vangelo ha sempre la dinamica dell’esodo e del dono, dell’uscire da sé, del camminare e del seminare sempre di nuovo, sempre oltre. Il Signore dice: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Marco 1,38)” (n.21). Al n. 39 ci ricorda che “il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e che ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da sé stessi per cercare il bene di tutti”. La cultura di oggi, spesso segnata dall’individualismo e dal soggettivismo, ci porta a ripiegarci su se stessi, in un atteggiamento di paura e di difesa, tentati dall’autosufficienza e dal timore dell’altro. Nella parabola degli operai mandati nella vigna (cfr. Matteo 20,1-16), il padrone non è uscito una sola volta, ma ben 5 volte, senza la paura di ritornare per cercare coloro che attendevano qualcosa da Lui. Uscire da sé chiede di aver un po’ più di fiducia in se stessi e nelle proprie capacità, di superare la paura di sbagliare e i giudizi degli altri. Uscire è segno di libertà interiore. Uscire è fidarsi del Signore Gesù che cammina con noi e non ci lascia mai soli. “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28,20). Significativo che la nuova Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis, nel delineare i fondamenti della formazione al presbiterato, ci dica: “Il seminarista è chiamato a “uscire da se stesso, per andare, nel Cristo, verso il Padre e verso gli altri, abbracciando la chiamata al presbiterato, impegnandosi a collaborare con lo Spirito Santo per realizzare una sintesi interiore, serena e creativa, tra forza e debolezza” (n. 29). Uscire da sé ci fa essere liberi per Dio e per gli altri.                 “La Chiesa – ci ricorda papa Francesco – è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile” (EG 74). Un dialogo che ha come presupposto la capacità di ascolto. Ecco perché diventa un’altra qualità importante del nostro servizio ministeriale. Nel Deuteronomio, l’ascolto è configurato come amore, perché coinvolge tutta la persona con le sue risorse interiori. “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (6,45). Nell’ascolto, l’attenzione che è richiesta verso l’altro, mette in gioco il cuore, l’intelligenza, il desiderio e altre risorse. La persona, se ascolta ‘veramente’, si ricompone in unità, perché il dialogo “è un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano” (EG 142). Il dialogo non come strategia pastorale, ma come fedeltà a Cristo, che non si stanca mai di ascoltarci e di parlare con noi. In una società spesso caotica, frenetica, circondati da inquinamento acustico, la necessità di fermarsi per ascoltare, appare sempre più essenziale nell’esercizio del ministero. L’ascolto costituisce uno degli aspetti fondamentali della dimensione relazionale. Saper ascoltare vuol dire non solo capire quello che l’altro dice, ma anche cogliere sentimenti, bisogni, gioie e disagi. La disponibilità all’ascolto permette un vero incontro interpersonale, favorisce una comunicazione efficace e facilita la costruzione di legami significativi. Ciò richiede tempi lunghi di ascolto, in un clima di rispetto e di fiducia. Nell’ascolto vi è un movimento verso l’altro e un coinvolgimento della propria interiorità.          Un’altra dimensione necessaria per il ministero ordinato è la relazione con l’altro. Se rileggo la mia esperienza di presbitero e in questi ultimi anni di servizio episcopale con voi, scopro ogni giorno di più che le relazioni vissute quotidianamente con voi confratelli e con tante altre persone, credenti e non, tutte però amate dal Signore, sono un vero dono di Dio e una grazia per la mia vita e la mia crescita umana, cristiana e sacerdotale. È importante che comprendiamo come è necessaria, soprattutto oggi, la capacità di incontro, dialogo e relazione con l’altro: dai momenti più informali, in casa, con gli amici a quelli più pastorali con i vari collaboratori e corresponsabili delle attività, nella consapevolezza che è bello comunicare e dialogare, anche se ciò comporta fatica e difficoltà di uscire da sé e di accogliere l’altro per quello che è e per quello che ci può donare. Avere una ‘forte e bella’ personalità, sana e matura, significa alla fin fine, non avere sempre la soluzione pronta o l’ultima parola su tutto, ma disponibilità e capacità di accogliere l’altro, di ascoltarlo, di incontrarlo, entrando in relazione con lui. La relazione con l’altro è la forma più grande dell’amore e della carità cristiana, perché ci fa incontrare le persone lì dove esse vivono, senza paura, senza fuggire dall’incontro e dal dialogo, anzi, compromettendosi con la vita della persona che il Signore ha posto sul nostro cammino, non rimanendo staccati e in superficie, ma entrando nelle pieghe più intime della storia e del cuore dell’altro, chiunque  esso sia, uomo o donna, giovane o anziano, povero o ricco, sposato o divorziato, malato o sano. Ce lo ha ricordato l’evangelista Luca nel Vangelo, indicando la relazione e l’incontro con i più piccoli, come il luogo attraverso il quale il Signore incontra le persone con le loro fragilità, dentro la vita quotidiana. Un compito, meglio un servizio liberamente accolto, che ora spetta a tutti noi, popolo santo di Dio: essere capaci di relazioni autentiche e di carità pastorale. Una buona parte del ministero ci chiede di saper entrare in relazione. Per questo è necessario prepararsi per essere uomini di relazione. Il capitolo delle ‘relazioni’ nella vita sacerdotale, è ben più ampio proprio perché presuppone, prima di tutto, una buona relazione con noi stessi, con il Signore e tra noi presbiteri. Ecco perché sarà necessario riprendere questo aspetto e farlo diventare occasione di ulteriori incontri formativi tra di noi.             Nel delineare alcune caratteristiche del ministero sacerdotale ‘in uscita’, credo necessario soffermarmi su un altro aspetto: consumarsi per la gente. Per essere un buon prete – ci ricorda papa Francesco – è necessario non solo seguire tutte le regole, ma avere una personalità disponibile a offrire la vita per gli altri. Un sacerdote deve essere il padre di una comunità, uno che serve la comunità e che non si distacca dalla gente. Per consumarsi per gli altri è necessario essere vicini, incontrarli e condividere la stessa vita. “Un sacerdote che si distacca dal popolo – ha detto papa Francesco a un gruppo di seminaristi – non è capace di dare il messaggio di Gesù. Non è capace di dare le carezze di Gesù alla gente. … Vicinanza vuol dire pazienza, vuol dire consumare la vita” (10/12/2016). Come preti siamo autentici strumenti della misericordia del Padre quando siamo disposti a consumare la vita per il gregge, soffrire con chi soffre. Faccio a me e a voi alcune domande provocatorie: è proprio questa l’immagine che la gente ha di noi ministri ordinati? Cosa pensa una persona ‘lontana’ dalla chiesa quando sente la parola prete? Cosa fa la differenza? Non intendo riaprire la questione sull’identità del prete, che dal Vaticano II in poi è ben chiara e definita, ma solo un invito a ritornare alla sorgente della nostra identità, che troviamo nel vangelo e nella vita di Gesù. Lasciamo risuonare ancora una volta l’immagine meravigliosa che Gesù ha scelto per descrivere il suo ministero, immagine cara anche a Papa Francesco: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (Giovanni 10,11). La caratteristica che Gesù sceglie per rendere riconoscibile la sua persona e la sua identità è il dare la vita, il consumarsi per l’umanità che si realizza nella morte in croce e nella risurrezione dai morti. Anche noi come pastori, siamo invitati a seguire il Pastore Gesù, l’unico pastore, consumandoci per i fratelli e donando tutto noi stessi per la loro salvezza. Concretamente, consumarci può significare non aver paura di stare con la gente, di coinvolgerci e di condividere la loro vita, di non abbandonare mai nessuno lungo la strada, di non scappare via dalle situazioni, ma di farci carico delle necessità e dei bisogni reali delle persone. Ripeteva spesso il card. Martini: “Bisogna ascoltare gli altri, comprenderli, includerli nel nostro affetto, riconoscerli, rompere la loro solitudine ed essere loro compagni. Insomma, amarli”.              Un’ultima qualità importante per il nostro ministero: rimanere discepoli. Può capitare anche a noi, come è successo agli scribi e farisei al tempo di Gesù, proprio per il ruolo che siamo chiamati a svolgere nelle comunità, di dimenticare che dobbiamo esser sempre discepoli, che dobbiamo avere il coraggio di rimetterci alla scuola del Maestro. Capita invece che anche noi ci ribelliamo alla sua volontà e ai suoi progetti, pensando di essere apposto, di essere già arrivati e che il ministero ci abilita, una volta per sempre, a guidare la comunità perché siamo superiori agli altri e maestri di tutti. “Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno” (Matteo 23,3). Gesù denuncia davanti alle folle e ai discepoli l’atteggiamento di chi non sente il bisogno di rimanere seduti tra i banchi di scuola, di chi si sente superiore agli altri. Chiede ai suoi discepoli e anche a noi di essere persone disposte a cadere e a rialzarsi, a domandare e a imparare, a cercare e a trovare. Anche se siamo ministri ordinati, siamo tuti parte del popolo di Dio in cammino verso il regno, persone che quotidianamente sono chiamate a crescere e a imparare, a confrontarsi con gli altri e, soprattutto, giorno dopo giorno ad apprendere da Gesù lo stile della gratuità, dell’amore e della misericordia. Siamo discepoli, incamminati dietro di Lui, in sua compagnia e alla sua sequela.             Carissimi tutti, in particolare tutti voi consacrati. Rinnovo il mio affetto e vi esprimo la mia gioia di essere qui con voi e di servire questa Santa Chiesa di Concordia-Pordenone. Vi esprimo l’augurio e il grazie più sincero per il dono del vostro ministero ordinato offerto alla nostra Chiesa e alle vostre comunità. Grazie per quello che siete e per il bene che operate. Portando nelle vostre comunità parrocchiali i Santi Olii benedetti, spandete a tutti il profumo di Cristo, fate sentire a tutti e non solo a quelli che partecipano alla vita della comunità, il vostro affetto e amore. Entrate, come ha fatto Gesù con Zaccheo, nelle loro case, avvicinatevi alle loro sofferenze e chinatevi sulle persone che soffrono nel corpo e nello spirito. E’ il modo più bello per vivere il nostro servizio ministeriale.  Buona Pasqua a tutti.                                                                        + Giuseppe Pellegrini                                                                                  vescovo