amore, di fiducia e di pace, aiutandoci a vincere la paura e lo scoraggiamento per i troppi conflitti, anche vicini a noi, che insanguinano il mondo e che speravamo oramai non più possibili. È una festa che ci aiuta ad avere uno sguardo più ampio sulla realtà che supera la comunità cristiana e si apre a tutta la comunità sociale e istituzionale del nostro territorio, dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Infatti, la celebrazione del 25 aprile è una data simbolica con cui si vuole ricordare la liberazione dell’Italia alla fine della seconda guerra mondiale. Un saluto cordiale e carico di affetto, a tutti voi presenti e ai rappresentanti delle istituzioni civili e militari. La comunità cristiana di Pordenone celebra la festa del patrono, affidandosi alla sua testimonianza e al Vangelo che ci ha tramandato. Nella pagina appena proclamata, Gesù, prima di salire al cielo invia i discepoli a portare nel mondo la sua Parola di salvezza: “Andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvato” (Marco 16,15-16), perché tutta l’umanità, guidata dall’amore e dalla misericordia di Dio, ritrovi la gioia e la bellezza del vivere insieme, del rispetto reciproco, superando barriere e individualismi, per formare un mondo più bello e più giusto, dove regni la solidarietà, l’amore e la pace.
L’evangelista Marco, nella prima lettera di Pietro appena ascoltata, è chiamato dall’apostolo “figlio mio” (5,13), e probabilmente il suo Vangelo risente della predicazione di Pietro. Giovanni, detto anche Marco, era cugino di Barnaba, che accompagnò insieme a Paolo, nel primo viaggio missionario a Cipro. A Roma si incontrò con Pietro, diventandone fedele interprete e mettendo per iscritto la sua predicazione, cercando di dare una risposta all’interrogativo chi è veramente Gesù di Nazareth, con le parole del centurione: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Marco 15,39). È il servo sofferente in cui è nascosta la gloria del Figlio di Dio, morto e risorto per la salvezza dell’umanità. Concludendo il suo Vangelo, più volte Marco sottolinea l’incredulità dei discepoli e la durezza del loro cuore, la sclerocardia, perché non avevano creduto a chi aveva visto Gesù risorto. Nella santa Messa del Crisma, papa Francesco ci ha ricordato che “la compunzione – quella puntura benefica che brucia dentro il nostro cuore e guarisce – è l’antidoto alla sclerocardia, quella durezza del cuore tanto denunciata da Gesù. Il cuore, infatti, senza pentimento e pianto si irrigidisce … indifferente ai problemi e indifferente alle persone”. Ma nonostante tutto, Gesù si fida dei discepoli e li invia nel mondo a portare il suo Vangelo, a parlare di Lui, chiedendo di essere testimoni. Questo sarà possibile solamente se i discepoli avranno fede e crederanno in lui. La missione affidata ai discepoli è universale, in tutto il mondo, ad ogni creatura, dappertutto. Ciascuna persona, dovunque sia e a qualsiasi razza appartenga, ha il diritto di sentire l’annuncio del Vangelo. Non esistono i vicini e i lontani, i primi e gli ultimi, gli amici e gli stranieri. L’annuncio deve sempre avvenire nel suo nome e nell’accoglienza di chi annuncia.
Aiutati dalla testimonianza dell’evangelista Marco e dalle parole di Gesù che ci invita ad andare, senza paura, con un atteggiamento di amore, di solidarietà e di apertura e con il cuore rinvigorito dal dono dello Spirito Santo, anche tutti noi, come comunità cristiana e civile, desideriamo prendere sul serio e impegnarci per la costruzione di un mondo e di una società più attenta e rispettosa degli altri. Infatti, in questo tempo non facile per nessuno e nemmeno per le istituzioni sociale e politiche del nostro paese, abbiamo bisogno di ritrovare la passione e l’impegno per la politica, per il bene comune e per la giustizia. Viviamo in tempi sotto il segno del disorientamento, dell’incertezza e del timore, segnati da una profonda crisi economica, sociale e valoriale, dalla pandemia, dalla violenza del terrorismo e delle guerre alle porte dell’Europa. Ma sono, pure, tempi di fatica e di paura della relazione con l’altro e con il diverso da noi. A risentirne di più è il dialogo e il confronto sereno tra le forze politiche, che spesso litigano, dimenticandosi del bene comune e della giustizia. È auspicabile pensare la politica non come scontro o gioco a chi grida più forte, ma come incontro e dialogo, pur faticoso, nella comune passione per il bene di tutti. Sogniamo una politica come amicizia civica! Insegna il Concilio Vaticano II: “Per instaurare una vita politica veramente umana, non c’è niente di meglio che coltivare il senso interiore della giustizia, dell’amore e del servizio al bene comune e rafforzare le convinzioni fondamentali sulla vera natura della comunità politica e sul fine, sul buon esercizio e sui limiti di competenza dell’autorità pubblica” (Gaudium et Spes, 73). E al n. 75: “La Chiesa stima degna di lode e di considerazione l’opera di coloro che, per servire gli uomini, si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità”. Fra poco in Italia e nell’Europa saremo chiamati a importanti scelte elettorali. Queste occasioni siano di aiuto a ritrovare il sogno e la visione dei padri fondatori dell’Italia a dell’Europa che volevano una società fondata sulla libertà e sulla dignità di ogni persona; sull’inclusività che non esclude nessuno e sulla solidarietà dei più disagiati. Aspetti che affondano le radici nel pensiero cristiano e nello stile di Gesù che ha fatto della sua vita un dono per tutti.
Anche noi, come cittadini e come credenti non possiamo rimane spettatori che dal balcone osservano lo scorrere della vita, ma essere testimoni e annunciatori con scelte concrete di un umanesimo e di una fede che abitino la vita reale e concreta delle persone. Una di queste scelte possiamo attuarla subito e insieme: lottare e fare memoria contro l’indifferenza che porta sovente a non guardare l’altro, a passare oltre senza considerarlo e senza cercare di capirlo e anche ad astenersi dall’impegno pubblico e dalle scelte elettorali. Questo richiama l’impegno a ricordare, a tessere l’intreccio delle esperienze umane nel tempo e a tener presente le possibilità di curare l’avvenire, di aprire al futuro e di sperare nella vita nuova, per i singoli e per la collettività. L’indifferenza conduce alla perdita di sé e allo smarrimento del gusto e dell’esperienza della vita. L’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza. L’opposto della pace non è la guerra ma l’indifferenza alla guerra.
Buona festa.
+ Giuseppe Pellegrini
vescovo
