Viviamo in un contesto sociale che potremo definire di mondanità, che non significa solamente attaccamento ai beni di questo mondo ma, come ci ricorda spesso papa Francesco, ripiegamento su se stessi e sulle apparenze, fidandoci di più su quello che facciamo e sulle nostre possibilità che dell’amore e della gratuità di Dio. Tale contesto favorisce idee e comportamenti che rischiano di trarci in inganno, e di farci vivere una vita di solitudine e di tristezza che porta alla perdita della vera gioia e alla paura della morte. Infatti, la festa di Tutti i Santi, cara alla tradizione cristiana e alla nostra fede, almeno per molti, rischia di cedere il passo alla festa della sera precedente, il 31 ottobre, Halloween, piena di mistero e di attrattiva che alimenta una macchina consumistica. In apparenza sembra innocua e ludico-ricreativa, ma che diventa, soprattutto per giovani ed adulti, una rete collettiva e seducente che porta al paganesimo e alla nuova stregoneria, pretendendo di sottomettere le potenze occulte al proprio servizio e potere. In questo modo si favorisce il passaggio dalla bellezza del mondo soprannaturale, celebrato dalla solennità di Tutti i santi ad un mondo oscuro dove regna l’inganno, la solitudine e la morte dell’anima.
La festa di Tutti i Santi, inserita nel cuore autunnale, dopo le mietiture, i raccolti e le vendemmie nelle nostre campagne, fin dal VII° secolo, ci chiede di ringraziare Dio per i frutti maturi della terra e di contemplare la mietitura e il bene operato dagli uomini e dalle donne che hanno offerto la loro vita e che ora vivono accanto a Dio. Essa ricorda, contro ogni solitudine e isolamento nel cuore dell’uomo, che non siamo soli, che siamo in comunione gli uni con gli altri, la chiesa celeste e la chiesa pellegrina nel mondo, formando un’unica assemblea: il corpo del Signore. Ogni domenica, nel professare la nostra fede diciamo: “Credo la comunione dei santi” che esprime il significato più vero della gioiosa festa di oggi, rivelata dalla bellissima immagine dell’Apocalisse della prima lettura: “Una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello” (7,9). Non una folla indefinita e che nessuno riesce a contare, ma una folla che nessuno può contare perché la realtà profonda della santità è conosciuta solamente da Dio che ama tutti indistintamente e che offre a tutti la possibilità della salvezza. La liturgia oggi ci invita ad essere felici, a rallegrarci nel Signore e a condividere la gioia celeste dei Santi nel cielo perché non solo è la festa della patria comune del cielo, dove tutti siamo incamminati e che tanti nostri fratelli e sorelle hanno raggiunto, ma è pure la festa della nostra chiamata e vocazione in cui celebriamo la fedeltà di Dio nei confronti di tutta l’umanità.
Nel Vangelo abbiamo ascoltato Gesù che ammaestra i suoi discepoli e la folla radunati sulla collina presso il lago di Galilea, proclamando il grande discorso delle Beatitudini, annuncio della vocazione di tutti alla santità. Le Beatitudini non sono una raccolta di norme o di leggi e nemmeno dei comandamenti da osservare, ma con un linguaggio paradossale e contro corrente, sono un invito alla gioia e alla speranza, un invito ad andare avanti, uno stile di vita da assumere, parole che cambiano l’ottica con le quali si guardano la vita, la realtà e gli altri. Certamente le beatitudini riguardano il rapporto con il Signore, ma toccano anche nel profondo le relazioni che abbiamo con le cose e le persone. “Beati” non è un aggettivo ma un invito alla felicità, alla pienezza di vita, alla consapevolezza di una gioia che niente e nessuno può togliere né spegnere. Il beati che Gesù ripete nove volte, ha il valore di ‘benedetti’, di quelli che vivono fin d’ora la felicità, capaci di ridare un senso alla loro vita: sono i poveri nello spirito e nel cuore, che si fidano di Dio e delle sua giustizia; sono quelli che piangono nelle prove e nelle sofferenze; sono i miti che abitano la terra senza possederla; sono i giusti e i misericordiosi; sono i puri di cuore che vedono la realtà e le persone con gli occhi di Dio; sono coloro che fanno pace in ogni situazione di tensione e di conflitto (cfr. Matteo 5,3-12). Nella storia Dio prende posizione stando dalla parte dei più deboli e non degli arroganti e dei violenti. Tutte queste persone che si trovano in condizioni difficili sono destinatarie della promessa e dell’amore di Dio. Chi vive queste situazioni con fede e con speranza, assumendo lo stile di vita di Gesù e affidandosi a lui, potrà arrivare a quella pace e serenità che porta gioia e felicità.
La parola del Signore indica anche a noi, oggi, la strada per raggiungere la vera beatitudine, la strada che conduce al Cielo. Non è un cammino facile perché va all’opposto della logica del mondo, va controcorrente, ma è la via per raggiungere la vera felicità. Questa è la via della santità, che è la stessa via della felicità. È la via che ha percorso Gesù; anzi, lui stesso è la via che ci aiuta ad entrare nella vita eterna. Ognuno di noi è chiamato a farsi santo e ognuno è chiamato a lasciare che il Signore prenda possesso della sua vita. Siamo tutti dei cercatori di Dio, camminando con speranza lungo le strade della vita, coltivando il dono della santità che Dio ci ha offerto e testimoniando con coraggio il Vangelo dell’amore che salva il mondo.
Chiediamo al Signore le grazia di essere anche noi delle persone semplici e umili, la grazia di saper piangere e di gioire, la grazia di perdonare e di accogliere il perdono, la grazia di lavorare per la giustizia e la pace, per diventare strumenti della misericordia di Dio e riflesso della sua santità.
+ Giuseppe Pellegrini
vescovo
