Nel celebrare la festa della comunione di Tutti i Santi abbiamo contemplato la Gerusalemme celeste, la sposa dell’Agnello; oggi, qui nel cimitero e nei tanti cimiteri della Diocesi e domani nella Commemorazione dei fedeli defunti, siamo invitati a ricordare tutti i nostri cari, parenti e amici e tutte le persone che sono morte senza che nessuno le abbia ricordate o abbia potuto pregare per loro. Due celebrazioni, quella dei santi e dei morti, che ci permettono di contemplare la vita eterna in Dio e a tener fisso lo sguardo sul centro della nostra fede e della vita cristiana: Gesù Cristo morto e risorto per noi. La croce, sigillo del morire nella fede, diventa il compimento della vita piena. Infatti in ogni morte, nella morte dei nostri cari che ricordiamo, come nelle morti tragiche causate dalla guerra, da avvenimenti catastrofici o dalla miseria e povertà, si rende presente quel mistero della risurrezione dei morti che proclamiamo nel Credo. La santità e la morte sono celebrate in un unico mistero di comunione perché sia la santità che è pienezza di vita che il morire, per noi credenti sono esperienza di comunione profonda con Dio che ci ama e ci vuole nel suo Regno. Una comunione più forte della stessa morte, speranza che alla fine della storia tutti saremo riuniti per sempre.
L’invito della Parola di Dio appena ascoltata e della Parola che verrà proclamata nelle celebrazioni di domani, ci aiuta a comprendere sempre di più il significato del morire ogni giorno, sulle tracce di Cristo. La morte è sempre presente nel nostro quotidiano: nella scomparsa di chi ci è accanto, nelle tragedie che ci raccontano i mezzi della comunicazione sociale ma anche nel morire un po’ a noi stessi in ogni atto di amore gratuito verso il Signore e i fratelli. Per far questo Gesù ci ricorda: “Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese … perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo” (Luca 12, 35.40). È un invito che sale dal profondo della vita, perché vivere è attendere. La vita è attesa: di una persona da amare, di un dolore da superare, di un figlio da abbracciare, di un mondo migliore, della luce infinita che possa illuminare le paure e le difficoltà. Dio viene e si pone a servizio della felicità dei suoi, della loro pienezza di vita: “Si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (v.37). È l’immagine clamorosa, che solo Gesù ha osato, di Dio nostro servitore; quel volto che solo lui ha rivelato e incarnato nell’ultima sera, cingendo un asciugamano, prendendo fra le sue mani i piedi dei discepoli, facendo suo il ruolo proprio dello schiavo. La nostra fortuna consiste non tanto perché abbiamo fatto quello che ci è stato chiesto, ma nell’avere un padrone così, pieno di fiducia verso di noi, che non nutre sospetti, cuore luminoso, che ci affida la casa, le chiavi, le persone. Dio ha fede in noi e noi ci fidiamo di lui. Io credo in lui, perché lui crede in me.
Solo così, carissime e carissimi tutti, nella piena fiducia in Dio e nell’amore reciproco verso chi è nel bisogno, sapremo ogni giorno accettare quella morte che ci viene incontro, perdendo però quel volto terribile di potenza distruttrice per assumere il volto, come cantava an Francesco, di sorella morte, costruendo così, giorno dopo giorno, il nostro futuro. Certamente il dolore delle persone care scomparse rimane, come resta la paura e il timore della morte. Ma non siamo soli perché Gesù cammina con noi, insegandoci che la morte è un passaggio, è una Pasqua.
+ Giuseppe Pellegrini, vescovo
