Meditazione Ritiro del clero, Pordenone 10 settembre 2018

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IL CORAGGIO DELLA POVERTA’

Introduzione

Una Chiesa povera con i poveri – ci ha ricordato papa Francesco – incomincia con l’andare verso la carne di Cristo. Ecco perché ho iniziato la lettera pastorale di quest’anno con la significativa espressione: Toccare la carne di Cristo, prendere su di noi il dolore per i poveri, come ha fatto Gesù che “pur essendo nella condizione di Dio … svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” (Filippesi 2,5-6). Solo così potremo incontrare, ascoltare e condividere la vita dei poveri presenti nelle nostre comunità e del mondo intero.

Nell’iniziare questo nuovo anno pastorale con alcune ore di ritiro spirituale e di preghiera, mi lascio guidare da un interrogativo che rivolgo anche a voi: “come noi consacrati viviamo il rapporto con la povertà? Sappiamo bene che è un interrogativo che molte persone, credenti o no, si pongono quando vengono a contatto con il clero e con la Chiesa. Penso che per dare una risposta vera e significativa, sia necessario fermarsi un po’ e contemplare lo stile di vita di Gesù che “da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Corinzi 8,9). Gesù rinunciò a rimanere nella pienezza di Dio e scelse la povertà dell’esistenza umana per comunicare, mediante la sua povertà, la ricchezza dell’amore di Dio. Gesù, nel discorso della montagna, dichiara che per essere felici si deve essere poveri; scelta che rappresenta il programma della sua vita e del Regno di Dio. Solo chi è libero nello Spirito può godere dei beni della terra come dono e non come possesso e sfruttamento. Gesù si è fatto come uno di noi per riempire il cuore di chi soffre, per portare a tutti speranza e coraggio, forza nelle prove e nella tentazione. La povertà di Gesù non è un esercizio ascetico di privazioni o di annullamento di sé, ma la continua ricerca di offrire agli altri l’amore del Padre rispondendo al disegno originario che vuole che tutti siamo salvi e raggiugano la felicità. “Beata quella povertà – scrive san Leone Magno – che non cade nel laccio teso dall’amore dei beni temporali, né brama di aumentare le sostanze del mondo, ma desidera ardentemente l’arricchimento dei tesori celesti” (Ufficio delle letture, venerdì XXII TO).

Questo è il dono che Cristo ha fatto all’umanità. Se la povertà di Gesù ci rende ricchi, siamo chiamati a donare agli altri e al mondo la nostra ricchezza, portando l’amore di Dio che salva l’umanità. Questo diventa un passaggio fondamentale della nostra spiritualità cristiana e in particolare per noi sacerdoti e diaconi: unire la contemplazione di Gesù povero con l’attenzione, l’amore e il servizio ai poveri. Prioritario per noi, come ha fatto san Francesco, saper coniugare una spiritualità legata strettamente alla figura di Gesù povero e misericordioso con la capacità di inserirci concretamente nel nostro territorio condividendo le situazioni di povertà e sofferenza di molte persone. In un mondo pieno di individualismo e menefreghismo verso gli altri, dove milioni di persone soffrono per fame, guerra, ingiustizie e miseria, lo Spirito del Signore continua a soffiare, portando amore, solidarietà e speranza. È la lunga storia di tanti santi e sante, canonizzati o no, anche del nostro territorio, che hanno reso bella la Chiesa scegliendo di mettersi al servizio dei poveri, uscendo da situazioni di conforto e sicurezza, per toccare la carne di Cristo nei poveri. Siamo essi a sostenere il cammino personale e della nostra Chiesa.

Lectio di Matteo 6, 24-34

“ Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?». Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena”.

Ho scelto questo testo perché è un forte richiamo a fidarsi di Dio che si prende cura di ogni creatura. Il suo amore e il suo sguardo ci ricordano che Lui veglia sempre su di noi e sulla nostra vita. Non solo al tempo di Gesù, ma anche oggi, siamo assaliti da tante preoccupazioni e fatiche, personali e pastorali, che ci angosciano e che rischiano di toglierci serenità ed equilibrio. Ecco allora l’invito ripetuto di Gesù a non preoccuparci (vv. 25, 31, 34), perché al di sopra di tutto c’è un Padre buono che ci ama e non si dimentica di nessuno. Riporto una parte dell’Angelus di papa Francesco del 26 febbraio 2017: “Dio non è un essere lontano e anonimo: è il nostro rifugio, la sorgente della nostra serenità e della nostra pace. È la roccia della nostra salvezza, a cui possiamo aggrapparci nella certezza di non cadere; chi si aggrappa a Dio non cade mai! È la nostra difesa dal male sempre in agguato. Dio è per noi il grande amico, l’alleato, il padre, ma non sempre ce ne rendiamo conto. Non ci rendiamo conto che noi abbiamo un amico, un alleato, un padre che ci vuole bene, e preferiamo appoggiarci a beni immediati che noi possiamo toccare, a beni contingenti, dimenticando, e a volte rifiutando, il bene supremo, cioè l’amore paterno di Dio. Sentirlo Padre, in quest’epoca di orfanezza è tanto importante! In questo mondo orfano, sentirlo Padre. Noi ci allontaniamo dall’amore di Dio quando andiamo alla ricerca ossessiva dei beni terreni e delle ricchezze, manifestando così un amore esagerato a queste realtà”. Desidero attirare la vostra attenzione sul verbo preoccuparsi, affannarsi, che significa essere nell’ansia, nell’angoscia, perennemente con il fiato sospeso; con un linguaggio contemporaneo diciamo viviamo ‘stressati’. Un modo di vivere che rivela un rapporto sbagliato con le cose, con la vita e con Dio. Gesù non invita i suoi discepoli a non occuparsi delle cose quotidiane: il cibo e i vestiti sono necessari per la vita. Il problema non sta tanto nel cercarli ma la modalità in cui avviene, sopravvalutandoli quasi fossero capaci di risolvere il problema di fondo della vita, e affannandosi eccessivamente, con quell’atteggiamento che oggi chiamiamo ‘ansia’. Secondo alcune teorie psicologiche essa è un’emozione che rientra nella famiglia della paura (insieme al timore, al nervosismo, alla preoccupazione, alla tensione ecc.). Gesù sembra dire che i sentimenti – soprattutto se negativi e dannosi – si devono controllare, perché se questo non accade e si assommano alle ansie dei giorni successivi, il peso ne risulterà insopportabile. Per liberarci dall’ansia e dall’angoscia delle cose materiali, Gesù non fa leva sulla loro insignificanza o negatività, ma sulla fiducia nell’amore di Dio Padre. L’affanno è una modalità di vita che non si addice alla visione cristiana delle cose perché indica una mancanza di fede. L’ultimo versetto, il 34, punta il dito su una direzione particolare dell’affanno: “Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena”. Ciò che angoscia anche noi è soprattutto l’angoscia per il futuro. Anche se sappiamo che è inutile affannarsi già oggi per ciò che può accadere domani, quando siamo vecchi. Il rischio è grande perché ci porta a vivere come il tale della parabola di Luca 12,16-21, che si preoccupa di accumulare nei granai molti beni per il futuro, dimenticandosi che il futuro è nelle mani di Dio che nutre i fiori del campo e gli uccelli del cielo. Per uscire da questa situazione, Gesù ci offre alcuni rimedi che possiamo definire come regole di vita fondamentali:
– Non si può servire a due padroni (v. 24)
– Cercate il Regno di Dio (v. 33).

° “Non potete servire Dio e la ricchezza” (v. 24)

O il Signore o gli idoli affascinanti ma illusori. È una scelta che siamo chiamati a fare e che si ripercuote su tante nostre azioni, programmazioni e attività. Alcuni esegeti dicono che questo detto è così lapidario per stile e contenuto che si può far risalire alle ‘ipssissima verba Jesu’. Siamo ben consapevoli, perché anche noi figli di questo mondo, delle cose che minacciano il primato di Dio nel cuore della persona umana: potere, prestigio, carriera, denaro, piaceri. Per Gesù due sono i padroni del cuore umano: Dio o il denaro. L’evangelista Matteo usa solo qui il termine semitico ‘mammona’ che significa l’accumulo di denaro, la fiducia che il denaro porti felicità, come una forza personificata, quasi un anti-Dio. Il verbo servire viene usato con il significato di appartenenza e preferenza. Nell’antichità, infatti, il servo era proprietà di un solo padrone, disponibile a servirlo in ogni momento. Gesù, nel dire che non è possibile servire a due padroni, dichiara che molti cercano di farlo, perché ritengono la ricchezza una benedizione di Dio per il bene e le opere che fanno. Ecco perché ribadisce che non si può appartenere a Dio e al denaro, che non si può sperare o avere fede nell’uno o nell’altro. Ci viene chiesta una fede vera, genuina che ci fa credere nell’essenziale, liberandoci da tutto ciò che ostacola la pienezza della vita, primo fra tutti il denaro, la ricchezza e la fiducia nei beni materiali. Il vero nemico di Dio nel mondo non è il demonio ma l’attaccamento al denaro, l’amore verso il denaro, perché non è uno dei tanti falsi idoli, ma l’idolo per antonomasia, il dio invisibile e il concorrente di Dio, che promette potere e benefici temporali. Ci ricorda san Paolo che: “L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali” (1 Timoteo, 6,10). Lo possiamo ben affermare anche nella nostra società che dietro ai mali più gravi (guerre e fabbriche di armi, corruzione e mafie, droghe, prostituzione e perfino il commercio degli organi) c’è sempre la bramosia del denaro e della ricchezza.

° “Cercate invece, anzitutto, il Regno di Dio” (v.33)

Gesù ci propone il primato del Regno di Dio, chiedendoci che Lui regni veramente nella nostra vita. Il vangelo non si oppone al desiderio di cibo e di vestito dicendoci che è sbagliato, che è peccato o che non servono. Il primato del Regno, non solo lascia spazio alle altre cose che “vi saranno date in aggiunta” (v. 33), ma diventa la condizione perché si possano usare nel migliore dei modi. Non sono, infatti, le cose che mortificano o rendono cattivo l’uomo, ma l’idolatria delle cose! Il primato del Regno libera dai piccoli desideri per desiderare meglio e di più; ci aiuta a cercare ciò che ha più valore nella vita e ci insegna un rapporto fiducioso e libero con se stessi, con il nostro corpo, con il denaro, con gli altri e con il creato. Il Regno di Dio è da cercare. Cercare è un verbo che dice il desiderio, lo slancio appassionato, la tensione e l’iniziativa. L’affanno e l’ansia non sono evangelici, il cercare e l’appassionarsi, si. E poi l’imperativo cercate suggerisce la continuità. Cercare il Regno è affare di tutta la vita, perché il Regno non è mai compito, è un ‘non ancora’, un seme che va coltivato e fatto crescere. Le cose della vita non si reggono da sole, ma hanno bisogno di uno spazio in cui collocarle e un modo corretto di cercarle. Se mettiamo al primo posto Dio e il suo Regno, resta il posto anche per il cibo, per il vestito e per la fiducia nel domani. Se si accumula, non c’è più posto né per te né per gli altri. Le cose sono un dono, e proprio perché dono, sono da godere, ma da godere insieme. Dio ha creato le cose per goderle e non per possederle. Capita spesso però che godiamo non delle cose ma del loro possesso, ritenendoci i soli padroni di noi stessi. Così concludeva l’Angelus papa Francesco: “Mentre onorare questi idoli porta a risultati tangibili anche se fugaci, scegliere per Dio e per il suo Regno non sempre mostra immediatamente i suoi frutti. È una decisione che si prende nella speranza e che lascia a Dio la piena realizzazione. La speranza cristiana è tesa al compimento futuro della promessa di Dio e non si arresta di fronte ad alcuna difficoltà, perché è fondata sulla fedeltà di Dio, che mai viene meno. È fedele, è un padre fedele, è un amico fedele, è un alleato fedele”.

Esistenza alternativa

Dalla meditazione del testo evangelico possiamo ricavare un insegnamento molto importante per noi consacrati, proprio perché siamo di fronte ad una prospettiva interessante e significativa: o siamo capaci di condividere la nostra ricchezza, fino a sapersi spogliare di essa, oppure essa ci aliena e ci rende schiavi. L’alternativa che Gesù ha proposto ai suoi discepoli, ora la propone a noi, liberi di scegliere tra due signori, due padroni: o Dio o il denaro. All’inizio della meditazione sono partito da una domanda: come noi viviamo la povertà? Desidero continuare su questo aspetto offrendovi, senza inventare niente, alcune passaggi della meditazione mattutina di papa Francesco a Santa Marta, il 18 novembre 2016. Il papa ricordava che ogni cristiano e in particolare i sacerdoti devono fare un serio esame di coscienza: il mio cuore è attaccato ai soldi? Com’è il vostro atteggiamento con i soldi? Si tratta di una domanda importante perché il popolo di Dio che ha un grande fiuto nel canonizzare o nel condannare, perdona tante debolezze, tanti peccati ai preti; ma non perdona quando vede il prete attaccato ai soldi.

Grazie alla povertà, il prete offre una visione della vita alternativa, perché diversa dalle mode correnti del mondo imprigionato dal consumismo e malato di autoreferenzialità. Per questo la testimonianza di un prete povero, diventa un segno importante di evangelizzazione e di annuncio di un Dio che ama le persone così come sono, che si prende cura di tutti, in particolare dei più poveri. La scelta di vivere uno stile di vita povero e sobrio che abbiamo fatto nel giorno della nostra ordinazione, non è di genere stoico o manicheo, non nasce dall’avversione contro i ricchi e la ricchezza, né da una voglia di protagonismo e perfezionismo, ma come frutto della contemplazione amorosa del Signore Gesù, desiderosi di metterci a servizio del suo progetto d’amore e di assomigliare a Lui. Come Gesù ha scelto di vivere povero, così noi, suoi discepoli cerchiamo di camminare sulle tracce del Maestro. In un tempo come il nostro, caratterizzato dalla corsa sfrenata al profitto e al successo, all’accumulo dei beni materiali e alle comodità della vita, siamo chiamati, carissimi confratelli, a scegliere senza riserve uno stile di vita povero, testimoniando uno stile di vita che non si appoggia ai poteri del mondo o a equivoche complicità, frutto di ingiustizie e corruzione ma alla forza della Parola e alla grazia del Signore. Quando Gesù ci ha inviato nel mondo ci ha detto: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo 10,8).

“La leggerezza del bagaglio del presbitero è condizione di scioltezza interiore e strumento di libertà apostolica; rende guide affidabili agli occhi del popolo di Dio e interlocutori credibili anche per i lontani”, scrivevano i vescovi italiani nel sussidio Lievito di fraternità, pag. 21. E papa Francesco, a dei seminaristi disse: “Hai paura della povertà? Senti, se hai paura della povertà, la tua vocazione è in pericolo! Perché la povertà sarà quello che farà crescere la tua donazione al Signore e sarà quella – la povertà – che farà da muro per custodirti, perché la povertà nella vita consacrata, nella vita dei sacerdoti, è madre e muro. È madre e muro: dà vita e custodisce” (10 dicembre 2016). La povertà è come un grembo materno che fa nascere e crescere la vita del presbitero nel fervore della donazione al Signore e diventa uno stimolo potente a una vita pastorale impegnata, una vita aperta a tutti, libera dalla tentazione della mondanità spirituale.

Uno stile di vita povero e sobrio facilita anche forme di vita comune tra di noi preti: dalla valorizzazione di luoghi di vita comune alla condivisione di esperienze e responsabilità pastorali. Sappiamo per esperienza quanto sia difficile la strada della fraternità e della collaborazione pastorale tra parrocchie. Sarà più facile se ne saremo pienamente convinti, se faremo crescere in noi lo spirito della povertà evangelica, con il distacco dalle proprie vedute e con la capacità di dialogare con gli altri presbiteri e con i laici. Uno stile di vita così ci aiuterà a far decollare le unità pastorali, indispensabili per un cammino di annuncio e di nuova evangelizzazione in diocesi.

Nella lettera pastorale, parlando della povertà del prete e delle comunità cristiane, accennavo alla gestione e all’uso del denaro nelle nostre parrocchie. Mi sembra importante ricordare che questi aspetti non sono separabili dalla riflessione che abbiamo fatto su come noi preti viviamo la povertà e il nostro rapporto con i soldi. Le domande che si siamo fatti e che ci ha fatto anche papa Francesco, devono trovare in noi una risposta personale che si traduca in uno stile di vita sobria, a partire dalla nostra persona, dai nostri ambienti di vita, dall’essere distaccati dalle cose materiali e dagli ultimi ritrovati della tecnica e dall’essere meno preoccupati della nostra vecchiaia. Anche se ci può far sorridere, riporto una battuta del papa: “È triste vedere un sacerdote che arriva alla fine della sua vita, è in agonia, è in coma», e vedere «i nipoti come avvoltoi lì», che guardano cosa possono prendere” (18 novembre 2016). I soldi che derivano dal nostro ministero, alla fine della vita è opportuno che siano destinati alla Chiesa, per la formazione, le missioni e per le opere di carità verso i poveri. Da qui la necessità e l’obbligatorietà di fare testamento. È necessario, pure, tenere distinto il conto personale di ciascuno dal conto della parrocchia, ricordando che tutte le offerte ricevute per ministero e celebrazione dei sacramenti sono per la parrocchia. Un altro aspetto, che varrà la pena riprendere, riguarda l’amministrazione dei beni e dei soldi della parrocchia, come segno di distacco e di povertà, oltre che di giustizia e trasparenza. Non sono ‘cose nostre’, da gestire a piacimento o come ci pare. Sono beni della comunità, e comunitariamente devono essere gestiti e amministrati. Penso al funzionamento di tanti Consigli degli Affari Economici delle parrocchie: come vengono scelte le persone e soprattutto come funzionano? Non è sufficiente che i consiglieri mettano la firma sui documenti, ma devono essere coinvolti in prima persona nelle scelte e nella gestione di beni e di soldi. Penso alla rendicontazione che ogni anno deve esse fatta e resa pubblica in parrocchia e presentata alla Curia diocesana. Penso al dovere di versare in curia il 3% delle offerte per le necessità della diocesi, che per essere madre di tutti rischia di restare figlia di nessuno. Penso anche ad alcune raccolte di carattere diocesano o nazionale (collette imperate e altre collette). Non è segno di povertà e nemmeno moralmente lecito che alcune parrocchie o non le facciano o non consegnino il ricavato stabilito alla diocesi, per la loro destinazione.

Conclusione

Il Vangelo è una chiamata alla conversione, a un cambiamento di rotta, passando da una mentalità individualistica, che anche noi preti talvolta abbiamo e che tradisce il vero spirito evangelico ad una vita di comunione e di fraternità. Tutto questo ha delle conseguenze nella nostra vita, sia personale che nell’esercizio del ministero. È doveroso che noi preti ci preoccupiamo del nostro ‘benessere personale’, dello stare bene con noi stessi, dei bisogni profondi che ciascuno ha. Ricordiamo, però, che il dono del presbiterato e del diaconato che il Signore ci ha fatto e che la Chiesa ha riconosciuto, è per fare della nostra vita un dono agli altri; un dono totale e gratuito, che talvolta ci chiede delle rinunce e delle fatiche e un supplemento di amore e gratuità. Anche questo è vivere la povertà! Chiediamo al Signore la grazia di una vita santa, che sa rendere presente ed attuale lo stile di vita di Gesù.

+ Giuseppe Pellegrini
vescovo