Duomo San Marco di Pordenone

Messa del Crisma e Giubileo Sacerdotale

Foto di copertina © Vatican Media

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Omelia del Vescovo Giuseppe Pellegrini

Il presbitero uomo e segno di speranza

 

Carissimi confratelli, sorelle e fratelli tutti, nel celebrare con fede e intensità la Messa del Crisma, in quest’Anno Santo desideriamo vivere il nostro giubileo sacerdotale, ricordando in questo modo il dono che Dio ci ha fatto chiamandoci al ministero; dono di amore che illumina e sostiene la nostra vita e il nostro cammino, per portare a tutti quelli che incontriamo la gioia e la speranza del Vangelo. La chiamata a seguire il Signore nella via del sacerdozio è per tutti noi una chiamata all’amore per vivere la nostra vita all’insegna dell’amore per Dio, per il prossimo e per se stessi.

 

Non c’è occasione migliore per vivere il nostro giubileo. Agli inizi della predicazione pubblica, secondo il Vangelo di Luca che la liturgia di oggi proclama, Gesù entra nella modesta sinagoga del suo villaggio, Nazareth, e tocca proprio a lui leggere e commentare un testo di Isaia. Nel commento Gesù si presenta come inviato del Padre che realizza il suo piano d’amore, proclamandol’anno di grazia del Signore” (Luca 4,19) che porta a tutti la salvezza e la liberazione. Questo passo è l’unico in tutto il Nuovo Testamento che menziona un anno giubilare; infatti l’anno di grazia   allude all’anno giubilare di cui si parla nel libro del Levitico (25,8-13). San Luca non è il solo tra gli evangelisti a raccontare la visita di Gesù a Nazareth, ma è il solo a offrirci il contenuto della sua predicazione, collocandola all’inizio del ministero pubblico, conferendo all’episodio un valore programmatico della sua missione. Missione che definisce come il compimento di una profezia che annuncia la predicazione di un anno giubilare come anno di liberazione, non solo a parole ma con i fatti: “rimettere in libertà gli oppressi” (4,18). Porre fine alle miserie e alle sofferenze dell’umanità tutta, realizza l’ideale dell’anno giubilare. Gesù ne è pienamente consapevole: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (v. 21). Con questa espressione, che ha turbato profondamente gli ascoltatori, Gesù esplicita meglio l’oggi della salvezza e il compimento delle scritture. Infatti, tutta l’attenzione degli ascoltatori si rivolge su Gesù e sull’evento: il consacrato e l’inviato dello Spirito è Lui! Un oggi che non si ferma con Gesù ma che continua con la missione dei suoi discepoli e della Chiesa. È un oggi che risuona forte stamattina anche per noi. Non è solo una nota cronologica nella vita di Gesù, perché si prolunga fino alla fine della storia, quando il compimento sarà definitivo. Per l’evangelista Luca l’Anno giubilare coincide con la venuta di Gesù. Ecco perché il Giubileo è l’oggi, non un anno ogni tanto, perché tutto il tempo dalla venuta di Gesù in poi è un tempo di grazia. Nelle parole di Gesù l’orizzonte dell’Anno Santo diventa il paradigma della vita cristiana che si allarga e abbraccia tutte le sofferenze, missione di Cristo e della Chiesa.

 

Cari confratelli, questa è la novità che anche noi siamo chiamati a testimoniare al mondo. Le parole del profeta che Gesù ha applicato a sé, siamo chiamati a farle nostre, come battezzati e come ministri e “sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Apocalisse 1,6). Questa è la vera identità del cristiano. Ce lo ha ricordato papa Francesco all’inizio del suo ministero petrino: “La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare” (Evangelii Gaudium, 273). Vi invito a meditare spesso il racconto di Gesù nella sinagoga di Nazareth perché l’Anno giubilare possa essere per tutti un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, porta di salvezza, con la missione di annunciare sempre e ovunque Gesù nostra speranza, evitando ogni tendenza egoistica ed esteriore.

 

Per il Giubileo di quest’anno la Chiesa ci ha dato una consegna: “fare esperienza viva dell’amore di Dio che suscita nel cuore la speranza certa della salvezza in Cristo” (Spes non confundit,6), diventando così segno di speranza per tutti. Mai come oggi l’umanità, lo stiamo sperimentando anche ai nostri giorni, ha bisogno di speranza. Papa Francesco, nell’indire l’Anno Giubilare e in tutto il suo pontificato, nelle parole che ci ha rivolto, nei gesti che ha compiuto e nel suo stile di vita ci ricorda che il rinnovamento che la Chiesa ha vissuto e sta vivendo, dal Concilio Vaticano II in poi, è principalmente un cambiamento di metodo. Non è più sufficiente richiamare la dottrina e gli orientamenti da prendere, ma prima di tutto è necessario instaurare un dialogo con gli uomini e le donne del tempo presente, al fine di conoscere le condizioni e i problemi della loro vita e del loro tempo, per far poi conosce qual è il pensiero della Chiesa riguardo a tali problemi, illuminandoli con la luce del Vangelo. Il punto di partenza per un rinnovato atteggiamento pastorale è la solidarietà tra la Chiesa e gli uomini e le donne di questo tempo, soprattutto i più poveri e abbandonati. La base della relazione tra la Chiesa e il mondo è la condivisione della condizione e delle esperienze comuni che sono le componenti della vita umana. Rivolgersi agli altri, penso in particolare a noi pastori, significa innanzitutto unirsi alle loro gioie e alle loro angosce. Ecco perché è significativo e anche innovativo, l’incipit del documento centrale del Concilio, la Costituzione pastorale GAUDIUM et SPES: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli ci Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. … Per ciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia” (n.1). Con altre parole, papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025 Spes non confundit partendo da questa prospettiva, ritiene la speranza come un desiderio, un bisogno e una necessità dell’umanità di oggi. “Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni” (n.1).

 

Carissimi confratelli presbiteri, diaconi e consacrati/e, e fedeli laici, questo è il compito che oggi la Chiesa ci affida: essere testimoni e segno di speranza in questo nostro mondo e in questa nostra umanità. Tutti, nessuno escluso, hanno bisogno di sentirsi amati e voluti bene da Dio, tutti hanno bisogno di una parola di speranza, tutti hanno bisogno di dare un senso al loro vivere e al loro morire: “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori” (Romani 5,5). È necessario prima di tutto uscire dal luogo comune che confonde la speranza con l’utopia, con un’illusione irrealizzabile o l’ottimismo e il buonumore, considerandola come una specie di ripostiglio dei desideri mancati, una compensazione che ci fa allungare la testa tra le nuvole o indugiare sulla zona pericolosa dei sogni a occhi aperti, una speranza dal ‘fiato corto’. La speranza è un fenomeno universale, che si trova ovunque c’è umanità, con una tensione di attese verso il futuro e la fiducia che, con pazienza, tale futuro si realizzerà.  Nel mito di Pandora, dal suo vaso aperto fuoriescono tutte le sciagure per abbattersi sull’umanità. Nel fondo rimane soltanto la speranza che però racchiude in sé qualcosa di oscuro. È l’attesa del futuro con il timore che sarà sempre incerto, concetto inafferrabile, in tutte le culture, positivo e negativo insieme. Spesso anche noi ci sentiamo impotenti e spaventati di fronte ad un futuro prossimo e lontano e magari ci viene voglia di non impegnarci e di ritirarci dentro il proprio guscio. La speranza è ciò che ci porta a trovare un senso al vivere, è ciò che ci permette di rialzarci, di non darci mai per vinti e di non cedere alla disperazione; è la forza per uscire da ciò che ci imprigiona e incatena. È la voglia di continuare a esistere al meglio, anche in un clima e in un regime di incertezza. La speranza è la tensione di chi, incamminatosi su una strada, ne ha già percorso un tratto e orienta i suoi passi, con amore e trepidazione, verso il traguardo non ancora raggiunto. Chi spera cammina e non fugge, costruisce il futuro, non lo attende soltanto. Il tema della speranza, come ricordava il card. Martini, riguarda anzitutto il momento drammatico di non ritorno che è la morte. A questo passaggio, nessuno può sfuggire, credente o non credente.

 

Per noi credenti la speranza cristiana è un dono che viene da Dio, dall’alto, la cui origine non è terrena e ha un volto ben preciso: il volto di Gesù Cristo risorto e vivo. Non si può dire di sperare nella vita se non si spera in Gesù. Pertanto la speranza non è qualcosa, ma qualcuno, come ha cantato san Francesco nelle Lodi di Dio Altissimo: “Tu sei la nostra speranza … e non abbandonerà tutti quelli che sperano in lui”. Papa Francesco è tornato più volte a parlare di speranza spronandoci a guardare con occhi nuovi la nostra esistenza, in particolare nei momenti di prova, e a guardarla attraverso gli occhi di Gesù, l’autore della speranza, affinché ci aiuti a superare i momenti difficili nella certezza che il buio si trasformerà in luce. Nel Messaggio Urbi et Orbi del 2020, in un momento difficilissimo per l’umanità colpita dal Covid, diceva: “È il contagio della speranza: «Cristo, mia speranza, è risorto!». Non si tratta di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non “scavalca” la sofferenza e la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio esclusivo del potere di Dio”. Ciò che costituisce il fondamento della speranza cristiana ci è offerto da Gesù stesso quando, rendendosi oramai conto che la fine era vicina, cercò di dare un senso alla prospettiva della morte inserendola nell’orizzonte del Regno di Dio, non avvertendo nessuna contraddizione, anzi una stretta connessione tra la speranza del Regno e la sua morte: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà” (Marco 8,35). Gesù proclama il Regno di Dio come una realtà presente e attiva nei suoi gesti e nelle sue parole. A chi condivide il suo progetto propone di abbandonare un sistema in cui domina la prospettiva della morte, per abbracciare la speranza del Regno dove i morti risorgono. La speranza, pertanto, coincide con il Regno di Dio che egli rende presente, offrendo il perdono dei peccati, la libertà ai prigionieri e la giustizia ai poveri. San Paolo nella Lettera ai Romani ci ricorda che la speranza non si fonda su un’interpretazione positiva dell’esistenza né su una visione ideologica ma sull’evento della morte e risurrezione di Gesù. I Vangeli non negano che la vita umana sia segnata dalla morte, ma annunciano che ogni morte è superata dalla risurrezione di Gesù. La risurrezione non è solo il destino di ognuno alla conclusione della propria vita terrena, ma è una forza che raggiunge il credente in ogni situazione della vita, pur nelle prove e difficoltà: “Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Romani 6,8-9). E ancora: “Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (8,24-25). La virtù della speranza, se da una parte spinge il credente a non perdere di vista la meta finale, dall’altra gli offre delle solide e profonde motivazioni per l’impegno quotidiano nella trasformazione della realtà per renderla conforme al progetto di Dio. È necessario però accogliere il dono dello Spirito Santo che suscita in noi la certezza che nulla “potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (8,39). Per questo motivo, Dio rivelatosi nella pienezza del tempo in Gesù Cristo, è veramente il Dio della speranza che ci riempie “nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per le virtù dello Spirito Santo” (15,13).

 

Arrivati a questo punto è necessario chiederci come essere segno e testimoni di speranza. La prima lettera di Pietro invita ad essere “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (3,15). Nel IV° secolo il vescovo Ilario di Poitiers si chiedeva: “Dov’è, cristiani, la vostra speranza”?  Proviamo a chiedercelo: abbiamo speranza? Sento in me la speranza viva che viene dal Risorto, oppure è soltanto una parola? La speranza cristiana abita davvero dentro di me? Non possiamo essere segno se prima non siamo uomini di speranza! Ecco perché è necessario fermarci un po’ a ripensare alla nostra vita, a come stiamo realizzando il progetto che il Signore ci ha consegnato, a come viviamo il ministero quotidiano e a come riusciamo a testimoniare la speranza, constatando, talvolta, che può essersi ridotta a un lumicino. Interessante un’omelia di papa Francesco a Santa Marta, qualche mese dopo la sua elezione: “È un po’ triste quando uno trova un prete senza speranza, senza quella passione che dà la speranza; ed è tanto bello quando uno trova un prete che arriva alla fine della sua vita sempre con quella speranza, non con l’ottimismo, ma con la speranza, seminando speranza. Questo prete è attaccato a Gesù Cristo. E il popolo di Dio ha bisogno che noi preti diamo questa speranza in Gesù, che rifà tutto, è capace di rifare tutto e sta rifacendo tutto: in ogni eucaristia lui rifà la creazione, in ogni atto di carità lui rifà il suo amore in noi” (9 sett. 2013). Ritengo anch’io che sia bello e confortante vedere, come ho constatato in questi anni, preti e diaconi, consacrati e laici, anziani e giovani, nonostante gli acciacchi e le sofferenze, essere vicini con serenità e gioia, con l’ascolto e la carità fraterna alle loro comunità, accompagnando la loro vita di fede.  Nella personale riflessione su come vogliamo essere sempre di più uomini di speranza, possono esserci di aiuto alcune considerazioni del card. Martini su alcuni sintomi di non speranza che intaccano la nostra vita: la verbosità dei vuoti discorsi, l’esigenza costante della discussione, l’inesorabile curiosità, la dispersione e l’intima irrequietezza. Ma anche soffermarci con gioia e riconoscenza al Signore quando intravvediamo in noi e nelle nostre comunità dei segni positivi di speranza cristiana. Per esempio quando nelle difficoltà non mi perdo d’animo, quando nella vecchiaia o nella malattia so affidarmi al Signore e a chi mi aiuta e mi vuol bene, quando sono capace di donare del mio tempo per visitare qualche confratello anziano e ammalato, quando nelle crisi personali, familiari e sociali so contemplare la provvidenza di Dio che mi viene incontro e ci ricopre con la sua misericordia, e quando so guardare all’eternità e al giudizio di Dio con serenità. Riconosciamoci con Gesù uomini di speranza nel sentirci sempre perdonati e abilitati a donare il perdono.

 

Scommettiamo senza paura sulla speranza. La speranza ci è necessaria come l’aria, come l’acqua, come il pane, come il respiro e anche come la preghiera, la Parola e l’Eucaristia. Signore dona speranza a noi, alle nostre comunità, alla Chiesa e alla società che ne hanno tanto di bisogno!

 

 

 

+ Giuseppe Pellegrini

vescovo