Il coraggio di prendere atto che viviamo in un cambiamento d’epoca
Introduzione
Nel preparare questa meditazione, in pieno cammino sinodale della Chiesa universale e della nostra Diocesi, mi sono soffermato sull’ultima intervista, potremmo dire il testamento spirituale, del Card. Martini rilasciata l’8 Agosto 2012, 23 giorni prima della sua morte avvenuta il 31 agosto. Quelle parole non hanno perso per niente la forza di dare da pensare, di mettere in atto emozioni forti e di mettere in crisi. Non è una critica alla Chiesa, ma l’invito per ogni credente a trovare un sussulto di fierezza e di coraggio, di fede e di fiducia, aprendo il cuore all’amore di Dio, della Chiesa e dei fratelli. Ne riporto una parte che mi sembra interessante: “La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. … La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?”.
Inizio la meditazione partendo dall’ultima domanda che si era fatto il Card. Martini: Cosa posso fare io per la Chiesa? Quando parliamo di Chiesa è bene ricordare che parliamo di pastori insieme ai fedeli laici, perché tutti, come battezzati, siamo evangelizzatori. Ciascuno in base al ministero ecclesiale che ricopre ha una sua responsabilità nell’edificazione della comunità cristiana. Lasciamoci provocare anche noi, oggi, da questo interrogativo. Solo l’immagine di Chiesa del futuro, potrà darci la forza di cambiare tutto ciò che c’è da cambiare in noi e nella pastorale. Abbiamo bisogno di immaginare un futuro ecclesiale possibile, in grado di illuminare il presente e di indicare la strada per gli anni che verranno. Quale Chiesa intendiamo lasciare in eredità alle generazioni che verranno? In questo interrogativo è racchiuso il significato più vero del cammino sinodale che stiamo facendo: Chiesa che vive la piena corresponsabilità di preti e laici; Chiesa che si mette in ascolto della gente e del territorio per cercare, nella preghiera e nel confronto con la Parola di Dio e del magistero, nuove forme e opportunità per annunciare nell’oggi il messaggio di amore, di gioia e di pace del Signore Gesù.
Il computo dei 200 anni di ritardo della Chiesa, ha scosso molte persone all’interno della comunità ecclesiale, provocando dubbi e perplessità ma anche spinte alla riflessione. Sono, pure, i 200 anni che ci separano dalla modernità, a partire dalla rivoluzione francese, e che la Chiesa non ha sempre affrontato con serietà e strumenti idonei. Lo ha fatto il Concilio Vaticano II, anche se i ritardi della sua attuazione sono ancora evidenti. Ecco perché siamo chiamati a guardare e ad accogliere il tempo che viviamo con gli occhi dei discepoli di Gesù, ad abitarlo con l’atteggiamento evangelico. Prendere coscienza che la Chiesa è in ritardo non fa male. Il mondo si è mosso, è cambiato creando nuove possibilità e nuovi bisogni. Profondi sono i cambiamenti antropologici, e noi siamo ancorati a visioni e modelli dell’umano non solo del passato, ma ormai svaniti e inefficaci. Mi consola il fatto che, papa Francesco, nel tradizionale incontro con la Curia romana, il 21 dicembre 2019, abbia ripreso questa espressione di Martini; ciò significa che continua a destare interesse e che è ancora attuale. Alle nuove generazioni non possiamo lasciare una Chiesa stanca, paurosa, ma una Chiesa che, anche in questi tempi non facili, sappia essere “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium 1). In questo discorso, poi, papa Francesco si è soffermato ampiamente sul significato del “cambiamento” e sulla necessità di accoglierlo e riconoscerlo come necessario perché “quello che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. … I cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare e di elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza”. Scriveva Newman: “Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni”. Non il cambiamento per il cambiamento, o per seguire delle mode, ma cambiare per accogliere il compito essenziale e fondamentale della Chiesa e di noi ministri: essere evangelizzatori! Diceva Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi: “Evangelizzare è la grazia e la vocazione proprio della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare” (n. 14). Risuonino vive dentro di noi le parole di San Paolo: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Corinzi 9,16).
Leggere i segni dei tempi
Come e cosa possiamo fare per comprendere il cambiamento in atto e le scelte necessarie per rispondervi e portare anche nell’oggi la parola di Gesù? Papa Francesco ci ricorda spesso che i tempi cambiano e noi cristiani dobbiamo cambiare continuamente. È un invito ad agire senza paura e con la libertà che il Signore ci ha dato e che la Chiesa è chiamata a mettere in atto: aiutare i credenti a leggere e comprendere i segni dei tempi. La conversione pastorale e missionaria più volte auspicata dal papa, richiede alla Chiesa di considerare con maggiore attenzione il contesto dove è chiamata a portare l’annuncio del Vangelo. L’oggi, anche nelle nostre terre, è caratterizzato da un pluralismo sociale senza precedenti: pluralità di cultura, etnie, visioni del mondo e religioni che convivono in una società globalizzata e secolarizzata. La comunità cristiana non può abbandonare questo mondo, ma è chiamata ad abitarlo senza perdere, meglio, per riscoprire la sua vera identità, rinnovando la sua azione evangelizzatrice. Abbiamo davanti a noi due strade da percorrere: o continuare ad elencare le cose che non vanno, gli errori di prospettiva, le paure e i sospetti della società che ci circonda, oppure avere uno sguardo positivo sul nostro mondo e sul nostro tempo. Anche se non è facile, la seconda scelta è la strada giusta, non per irenismo o ingenuo ottimismo, ma per essere fedeli al Vangelo e alla speranza che Gesù Risorto dona ai discepoli e alla sua Chiesa: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Matteo 28,20).
Questa è la società di oggi, questa è la gente che siamo chiamati a incontrare, amare e servire …. e non altre! È una sfida di non poco conto, perché è una sfida personale per noi preti e diaconi, ma anche per la pastorale. Abitare questo tempo significa condividere fino in fondo, come ci ricorda la Gaudium et spes, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne di oggi; significa riscoprirsi compagni di viaggio di un’umanità che soffre e che gioisce, condividendo con essa origine e destino; significa, come abbiamo vissuto nel tempo della pandemia, essere tutti insieme nella stessa barca. Ma per prendere sul serio e abitare il nostro tempo, è importante che la Chiesa si eserciti a guardare con occhio rinnovato il mondo e la società in cui vive, avvicinandosi alla realtà “con lo sguardo del Buon Pastore, che non cerca di giudicare, ma di amare” (EG 125). Una conversione dello sguardo e del cuore che non è mai scontata. I padri conciliari, riprendendo l’idea di Papa Giovanni espressa nell’apertura del Concilio, ci hanno ricordato che “è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo nonché le sue attese, le sue aspirazioni e la sua indole, spesso drammatiche” (GS 4). Anche papa Francesco nell’EG riprende questi concetti: “Esorto tutte le comunità ad avere una sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi. … È opportuno chiarire ciò che può essere un frutto del Regno e anche ciò che nuoce al progetto di Dio” (n.51).
Matteo 16, 1-4
1I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. 2Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: ‘Bel tempo, perché il cielo rosseggia’; 3e al mattino: ‘Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo’. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? 4Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò.
Quando Gesù viene messo alla prova, non si tira mai indietro, replicando in modo puntuale alle questioni sollevate. La venuta dei farisei e dei sadducei conferisce alla discussione un tono polemico, che segue la seconda moltiplicazione dei pani. Gesù per ben due volte aveva sfamato la folla, ma loro non erano presenti. Ora vogliono metterlo alla prova chiedendo un segno dal cielo, come aveva fatto Satana nelle tentazioni (cfr. Matteo 4,1-11). Chiedendo un segno dal cielo, i farisei e sadducei si mettono nella logica della manifestazione gloriosa del Messia, di un avvenimento nel quale Dio si manifesta nella sua potenza. Gesù, invece, nel rispondere si pone in un’altra prospettiva. Molte persone sanno leggere i segni del tempo metereologico, ma ci sono altri segni che non possono essere interpretati alla maniera umana. Capire l’agire di Dio nella storia non è un problema solo intellettuale, bensì spirituale. Un cuore indurito e ripiegato solo su se stesso, non riuscirà mai a cogliere i segni della presenza di Dio nel mondo. I segni che Gesù aveva compito, erano già chiari. Ma i suoi interlocutori non avevano voluto credere. Gesù ci richiama alla capacità di scorgere i segni di Dio nella sua vita, segni che sono evidenti. Gesù non vuole dare segni cosmici, ma l’unico segno che avrà a che fare con la sua vita, in particolare con la sua morte e resurrezione: il segno di Giona.
Il segno che è Gesù, con la sua morte accolta da Dio nella Resurrezione è il segno dei tempi per eccellenza, quello attraverso il quale irrompe nella storia il Regno di Dio. Riconoscere i segni dei tempi, diventa per i discepoli di Gesù partecipare alla sofferenza della creazione discernendo il tempo, il kairòs, che è la sua vita, la passione, la morte e la resurrezione. Ecco perché non è facile, ieri come oggi, discernere i segni dei tempi, perché è necessaria l’intelligenza della fede che aiuta a cogliere il mistero nella sua relazione e nella sua realtà storica, passato, presente e futuro, senza contrapposizioni, nella certezza che Dio non è assente dalle vicende umane: il Regno di Dio presente, ma non ancora realizzato pienamente. Risulta evidente che in alcune fasi e momenti più difficili e complicati della storia, come quelli che stiamo vivendo, il compito del discernimento risulta ancora più difficile.
Vivere nel tempo della pluralità
Questo è il tempo della pluralità o del pluralismo. Le nostre città e i nostri paesi sono multi-culturali, multi-etnici e multi-religiosi. Penso sia giusto che anche noi pastori ce ne rendiamo conto, se vogliamo riprendere con forza l’annuncio del Vangelo nelle nostre comunità. Non è più possibile il criterio del “si è fatto sempre così” (EG 33), o ‘del facciamo quel che possiamo’. La società moderna e secolarizzata ha segnato la fine del monopolio della religione nei diversi ambiti di vita, soprattutto in quello morale e sociale. La Chiesa sempre più è considerata solamente una tra le tante voci, un sistema accanto ad altri. Il pluralismo, però, non è una ideologia da combattere ma una realtà da cogliere ed abitare, proprio per obbedire al mandato evangelico di leggere i segni dei tempi. La pluralità non toglie nulla alla solidità della verità che la Chiesa annuncia al mondo, perché la verità può esprimersi in una sinfonia di linguaggi diversi. Vi invito a considerare il pluralismo dei nostri tempi come un’opportunità che la Chiesa è chiamata ad abbracciare e ad accogliere. Per far ciò è necessario avere uno sguardo positivo sulla modernità e post-modernità, anche se non sempre troviamo le giuste modalità. Il Vangelo ci spinge ad andare oltre, a valutare con attenzione i segni della presenza di Dio in questa terra, non fermandoci all’aspetto esteriore ma andando in profondità. Il tempo di oggi contiene i segni della presenza del risorto incisa nelle pieghe della storia e nelle vicende umane. Chiediamo al Signore e all’intercessione di Maria, Madre de buon consiglio, che ci rendano capaci di scorgere anche attraverso le brutture e le contraddizioni, il volto del Signore Gesù. È stato così fin dagli inizi del tempo della Chiesa apostolica: Pietro, Paolo e la comunità cristiana primitiva, hanno imparato dall’esperienza dell’incontro con altre persone e con le persecuzioni a individuare modalità sempre nuove per annunciare il Vangelo. Diceva Papa Giovanni che “non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Si riesce a comprendere e a testimoniare il Vangelo mettendoci in ascolto della storia del mondo e degli uomini. Per esempio, il magistero della Chiesa solo negli ultimi due secoli ha cominciato a parlare di diritti civili e di libertà religiosa. La Civiltà Cattolica ancora nel 1865 sosteneva la liceità morale della schiavitù. Di recente accogliamo positivamente il magistero degli ultimi pontefici sulla difesa e la cura del creato. È soprattutto con papa Francesco e la sua Lettera enciclica Laudato Si’ che tale attenzione diventa un capitolo importante della Dottrina sociale della Chiesa. Non c’è agenda politica di stati o di organismi internazionali che non mettano al centro l’attenzione alla crisi ecologica e ambientale del pianeta e la necessità di fratellanza più vera tra tutti i popoli.
Dinanzi al crescente pluralismo religioso dovuto anche ai flussi migratori, le chiese e le religioni rispondono in maniera differente. Preoccupa molto la crescita del fondamentalismo religioso, rigido e radicale che porta ad una separazione netta, talvolta anche ad uno scontro, tra comunità religiosa e mondo, tra fede e cultura, tra puri e infedeli. L’unica via per superare tali fenomeni integralisti è che la Chiesa rimandi alla presenza di Dio nella vita dell’uomo, preservando la differenza che c’è tra divino e umano, tra Dio e il mondo. La categoria teologica che ci permette di leggere la presenza divina nel mondo, preservandone l’alterità, è quella di sacramento: l’irruzione del trascendente nell’immanente, che si realizza nell’incarnazione del Verbo e che continua oggi in forma sacramentale. In Gesù Cristo si realizza la presenza sacramentale di Dio nel mondo. La fede cristiana permette alla Chiesa di non chiudersi in se stessa, ma di mettersi in cammino senza paura e senza separarsi dal mondo, in cammino nell’oggi, verso il pieno compimento nel Regno di Dio. Una Chiesa che non ha paura di stare al passo con i tempi, di rinnovarsi, di dialogare con il mondo contemporaneo, ricercando i segni della presenza di Dio. Scrive Papa Francesco nell’EG: “La diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa. È lo spirito Santo che … costruisce un’unità che non è mai uniformità ma multiforme armonia che attrae. L’evangelizzazione riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito genera nella Chiesa. Non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde” (n.117.)
Carissimi, a tutti viene chiesto un vero rinnovamento. Questo presuppone una forte spiritualità e vita interiore, approfondite riflessioni teologiche e anche coraggio di sperimentare. È il tempo di un autentico discernimento spirituale, che ci conduca ad un viaggio all’interno di noi stessi, per arrivare a seri processi di maturazione umana, affettiva e spirituale che ci aiutino a dare un senso pieno alla nostra vita e una risposta alle domande centrali della nostra esistenza e del nostro ministero: Perché essere cristiani? Perché la scelta di una vita di consacrazione nel ministero sacro? Perché seguire il maestro di Nazareth anche in questi tempi non facili?
Come attuare e vivere il discernimento?
Al numero 51 dell’EG Papa Francesco, riprendendo la lunga tradizione della Chiesa, ci esorta ad avere una sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi, “non solo riconoscere e interpretare le emozioni dello spirito buono e dello spirito cattivo, ma – e qui sta la cosa decisiva – a scegliere quelle dello spirito buono e respingere quelle dello spirito cattivo”. Riconoscere, interpretare e scegliere: questo è il cammino che abbiamo davanti come pastori e anche come comunità cristiane per riannunciare il Vangelo di Gesù nel nostro tempo. Per entrare nella logica del discernimento, per comprendere la volontà di Dio su di noi e sul mondo, discernendo i segni buoni e i segni cattivi, è veramente indispensabile il coraggio di fermarsi un po’, di spazi di silenzio e di riflessione, di ascolto della Parola e di preghiera. Riporto un passaggio del discorso di apertura al Sinodo dei giovani di papa Francesco: “Il Sinodo è un esercizio ecclesiale di discernimento. Franchezza nel parlare e apertura nell’ascoltare sono fondamentali affinché il Sinodo sia un processo di discernimento. Il discernimento non è uno slogan pubblicitario, non è una tecnica organizzativa, e neppure una moda di questo pontificato, ma un atteggiamento interiore che si radica in un atto di fede. Il discernimento è il metodo e al tempo stesso l’obiettivo che ci proponiamo: esso si fonda sulla convinzione che Dio è all’opera nella storia del mondo, negli eventi della vita, nelle persone che incontro e che mi parlano. Per questo siamo chiamati a metterci in ascolto di ciò che lo Spirito ci suggerisce, con modalità e in direzioni spesso imprevedibili. Il discernimento ha bisogno di spazi e di tempi. … Questa attenzione all’interiorità è la chiave per compiere il percorso del riconoscere, interpretare e scegliere” (3 ottobre 2018).
La parte più difficile del discernimento è la capacità di fare delle scelte che portino alla conversione personale e al cambiamento e rinnovamento della pastorale, proprio per rimanere fedeli a quanto lo Spirito ci suggerisce. Effettivamente in questi nuovo contesto culturale, sociale ed ecclesiale, attraversato da cambiamenti radicali, sono necessarie delle scelte, prendendo la distanza da certi automatismi e meccanismi divenuti abitudinari. Sentiamo tutti la fatica di portare Gesù alla gente, anche perché molti non sono interessati. Continuiamo a celebrare il numero di messe domenicali di quando il numero dei sacerdoti era maggiore e le famiglie non disponevano di un’auto e non era ancora nata la mentalità dell’weekend! Continuiamo un sistema di iniziazione cristiana e, più in generale, di amministrazione dei sacramenti che non coinvolgono pienamente la famiglia e i genitori, con il risultato che non ci sono quasi più ragazzi, adolescenti e giovani che partecipano all’eucaristia domenicale, anche se hanno appena celebrato la messa di prima comunione, la cresima o il sacramento del matrimonio. Tutto questo dovrebbe spingerci a qualche considerazione e a fare delle scelte pastorali che mettano l’evangelizzazione, il fare nuovi cristiani, al centro della prassi pastorale. Siamo chiamati ad aiutare le nostre comunità a trasformare la religiosità in fede personale, in incontro con il Signore Gesù, altrimenti il cristianesimo sarà solo una religione cultuale, che di fronte ai cambiamenti dei paradigmi socio-culturali, appassisce e scompare. Se manca la fede e la relazione con il Signore, anche il nostro servizio caritativo verso i più poveri e scartati dalla società, sarà visto come una ONG! Ci ricorda papa Francesco: “La Chiesa non è un negozio, non è un’agenzia umanitaria, la Chiesa non è una ONG, la Chiesa è mandata a portare a tutti Cristo e il suo Vangelo; non porta se stessa – se piccola, se grande, se forte, se debole – la Chiesa porta Gesù e deve essere come Maria quando è andata a visitare Elisabetta. Cosa le portava Maria? Gesù. La Chiesa porta Gesù: questo è il centro della Chiesa, portare Gesù! Se per ipotesi, una volta succedesse che la Chiesa non porta Gesù, quella sarebbe una Chiesa morta! La Chiesa deve portare la carità di Gesù, l’amore di Gesù.” (Catechesi udienza generale, 23 ottobre 2013).
Discernere significa cambiare e cambiare non è mai facile. Perché? Ogni cambiamento richiede una certa disponibilità a “morire” ad un determinato stile di vita e alle abitudini. Richiede una conversione d’animo e la capacità di trovare il coraggio per una rinascita personale, per una fede profonda e un amore al Signore Gesù, alla Chiesa e a tutta l’umanità. Senza criticare o rinnegare tutto quello che è stato fatto e che stiamo faticosamente facendo, – qui va tutto il mio grazie per le fatiche e difficoltà quotidiane che incontrate, cari confratelli, e tutta la passione e l’amore che ci mettete nella pastorale – il passaggio urgente oggi da compiere è da una pastorale del cambiamento ad un cambiamento della pastorale. È l’insieme che non funziona più. Ecco perché è importante e necessario il cammino sinodale che la Chiesa sta vivendo. Prima di risposte e di nuove proposte, è importante lo stile: il passaggio da una pastorale progettuale, che ha ben chiara la finalità e gli strumenti per arrivarvi, ad una pastorale che avvia dei processi, che, dall’ascolto della realtà e delle persone, mette in atto piccole ma significative scelte. In Evangelii Gaudium ai numeri 222-225 papa Francesco insiste su un principio interpretato in chiave pastorale che recita ‘Il tempo è superiore allo spazio’, dove esorta a non riempire l’agenda di progetti, impegni, eventi, con la pretesa di arrivare immediatamente al risultato. Ciò che conta è avviare processi, un cammino nel tempo dandosi tempo, passo dopo passo, tendendo all’orizzonte indicato dallo Spirito. La spiritualità della strada domanda pazienza, libertà di cuore, fiducia. Almeno nei documenti e in qualche sperimentazione in atto, una serie di processi è già avviata. Di essi è saggio prenderne consapevolezza, sostenerli e non aver paura di portarli avanti. Penso al processo della sinodalità, con il confronto che stiamo vivendo nell’esperienza del cammino sinodale diocesano, ma anche l’importanza di far funzionare bene gli organismi di partecipazione, il Consiglio Pastorale Parrocchiale e altri organismi. Strettamente collegato con la sinodalità è il processo di maturazione di una vera corresponsabilità laicale. È evidente che l’antico modello del prete tuttofare non regge, anzi favorisce il clericalismo. Egli è chiamato a scoprire e valorizzare i vari carismi e a far sì che ognuno li metta a servizio degli altri. Il processo di avvio delle unità pastorali è ancora agli inizi. Se le scambiamo per sovrastrutture imposte dall’alto, come un ulteriore aggravio, non andremo molto lontani. Sono piuttosto una forma di comunione e di cooperazione per sostenersi, arricchirsi reciprocamente, e per una azione ecclesiale più incisiva.
Da dove partire? Il punto di partenza per una nuova mentalità pastorale lo troviamo nella Chiesa che non si chiude in se stessa, ma si apre al Regno di Dio; una Chiesa che porta speranza aiutando le persone a guardare in avanti, verso il futuro che verrà; una Chiesa che mette al centro delle proprie preoccupazioni il desiderio che chiunque si trovi a intercettare la comunità dei cristiani, possa incontrarsi con Gesù e sviluppare il desiderio di conoscerlo meglio, sino al punto di potersi innamorare di Lui. Preghiamo perché la Chiesa metta al centro della sua missione: l’attenzione alla Parola di Dio, alla Preghiera, alla dimensione festiva dell’esperienza religiosa e ad una concreta prassi di prossimità che faccia sentire a chiunque di essere amato da Dio e dai fratelli. Che la Chiesa sia il luogo della Parola, della Preghiera, della festa, della prossimità e dell’apertura missionaria al mondo.
Conclusione
Riprendo alcune parole dell’intervista fatta al card. Martini: “Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore”. Credo sia la strada più vera e più efficace per affrontare seriamente il cambiamento, per concentrarci maggiormente su una pastorale che non abbia paura di evangelizzare il mondo di oggi. Diventa così anche la strada per riscoprire la nostra identità ministeriale. Scrive il nuovo Prefetto del Dicastero per il clero, card. Lazzaro You Heung-sik: “Il paradigma del buon prete – ovunque si trovi nel mondo a vivere e a operare – è la legge dell’Amore, che supera qualsiasi altra norma morale o canonica. Il prete è chiamato a orientare all’amore, e può efficacemente farlo solo se lui stesso vive nell’amore. L’amore non è la ricerca di una perfezione inibita dal limite umano, ma l’accoglienza misericordiosa di questo limite. Vivere il Vangelo non è codificare una legislazione morale ma rendere felici gli altri mettendoli in contatto con l’amore infinito e misericordioso di Dio. E poi la preghiera. Il prete che non prega costantemente finisce con l’inaridirsi. Si diventa impiegati del religioso. Non si sviluppa lo spirito altrui senza alimentare il proprio. Lo dico non con la perentorietà di un superiore ma a partire dalla mia esperienza personale. Non potrei fare quello che faccio, ed essere quello che sono, se non cominciassi ogni giornata con una camminata di preghiera nei giardini vaticani fino alla Madonna di Lourdes. E poi, infine, la vita comunitaria. Un sacerdote che vive in solitudine, o anela alla solitudine, non è ben formato. So bene che la vita comunitaria è spesso difficile, irta di ostacoli e di reciproche incomprensioni. Ma sono proprio queste difficoltà che forgiano il carattere di un buon prete, nel senso della capacità di accogliere, di essere pazienti, di essere umili, di essere aperti e comprensivi delle tante alterità che offre il mondo. La vita comunitaria deve essere poi aperta al mondo. Il presbitero deve avere buone e intense frequentazioni con i laici, con le famiglie. Per non perdere la dimensione del reale. Questo è il vero antidoto a quel pericolo sempre incombente che è l’autoreferenzialità”.
+ Giuseppe Pellegrini
Vescovo
Testi di riferimento e di riflessione:
Armando Matteo, La Chiesa che verrà, Edizioni San Paolo 2022
Francesco Zaccaria, Chiesa senza paura, Edizioni Messaggero Padova 2021.