Omelia Giovedì Santo – Messa del Crisma Pordenone, 2 aprile 2015

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Omelia Giovedì  Santo – Messa del Crisma

Pordenone, 2 aprile 2015

Mandati per annunciare il Vangelo

 

Il saluto più affettuoso al vescovo Ovidio, a voi cari confratelli presbiteri presenti e anche agli assenti per vari motivi, in particolare ai malati, agli anziani e a coloro che si trovano impegnati ad esercitare il ministero in altre Chiese, a voi diaconi, religiosi e religiose e a tutti i fedeli laici provenienti dalle varie parrocchie. Saluto anche i sacerdoti e religiosi giunti qui per prestare un servizio nel periodo pasquale. E desidero ricordare, infine, con sincera gratitudine quanti oggi festeggiano un particolare anniversario di ordinazione sacerdotale.

 

  1. Unti per proclamare il Vangelo

Nella colletta della S. Messa che ci vede riuniti tutti insieme, presbiterio e vescovi, attorno all’unico pane spezzato, Gesù Cristo, abbiamo pregato il Padre che per la partecipazione all’unzione del Figlio diveniamo testimoni nel mondo della sua opera di salvezza. Nel giorno della nostra ordinazione, siamo stati unti e consacrati, come il Cristo, dallo Spirito Santo per la santificazione del suo popolo e l’offerta del sacrificio. Le pagine della scrittura che abbiamo ascoltato ci ricordano chiaramente che l’unzione significa in primo luogo l’iniziativa di Dio che ci rende, dentro un popolo, ministri a servizio della Parola e ci investe della missione di portare a tutta l’umanità, la misericordia e l’amore di Dio. Papa Francesco, nella sua prima omelia della Santa Messa del Crisma, commentando ampiamente l’immagine dell’olio e del crisma come un ‘essere per’ fino ai confini dell’universo, pregava il Signore affinché continui rinnovare in noi sacerdoti lo spirito si santità “in modo tale che l’unzione giunga a tutti, anche alle ‘periferie’, là dove il nostro popolo fedele più lo attende ed apprezza”.

Lungo tutta la tradizione dell’Antico Testamento, il profeta consacrato con l’unzione non è mai separato dal popolo, perché esercita una mediazione sacerdotale verso tutta l’umanità. I racconti di vocazione comportano sempre l’invio in missione, espresso nel testo di Isaia, con alcuni significativi verbi: annunciare, fasciare, proclamare, promulgare e consolare (cfr. 61, 1-3). Il comune denominatore di ‘annuncio di buone notizie’ è adatto alla missione che deve compiere. Infatti, il primo verbo usato, annunciare, possiede già alcune connotazioni della parola ‘vangelo’. Destinatario dell’annuncio non è il popolo in generale, ma a categorie di persone ben precise che vivono situazione di povertà e sofferenza. A tutti questi il profeta si presenta come il liberatore, il portatore della misericordia e della benevolenza di Dio. Così l’umanità intera potrà entrare nell’alleanza eterna e nella benedizione che Dio Padre ha riservato per tutti i popoli, chiamati così a essere ‘popolo sacerdotale’. L’azione e l’opera di Cristo, poi, come ci ha ricordato il libro dell’Apocalisse, farà si che tale privilegio del popolo eletto appartenga a tutta la Chiesa, popolo regale e sacerdotale. Nella Chiesa, infatti, tutti i fedeli sono chiamati ad adorare e servire Dio, a testimoniare per lui davanti alle nazioni e invitare tutti i popoli a entrare nella liturgia definitiva del Regno. In tutta la tradizione della Chiesa la liturgia della messa crismale richiama il sacerdozio dei fedeli. L’episodio evangelico che vede Gesù nella sinagoga di Nazareth, oltre a rivelare il mistero profondo della persona di Gesù e del suo programma, diventa un invito per tutti quelli che lo ascoltano a seguire il suo stile di vita. L’evangelista Luca riprende il testo di Isaia, allargandone la prospettiva universalistica e fondando l’invio in missione di Gesù nella discesa su di lui dello Spirito Santo. Questa buona novella aprirà i tempi nuovi e coinciderà con la venuta del regno di Dio sulla terra. Gesù dichiara così apertamente di essere lui il profeta messianico annunziato da Isaia. L’ “oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete ascoltato” (Luca 4,21), risuonato nella sinagoga, non ha la portata solamente di datazione storiografica, bensì rimanda al tempo del compimento definitivo e alla promessa di liberazione e di vita per tutti quelli che accoglieranno il suo vangelo.

C’è un’espressione, nella prima e nella terza lettura, che ha attirato la mia attenzione mentre mi preparavo e riflettevo su questo nostro incontro: “Mi ha mandato” (Isaia 61,1; Luca 4,18). E’ la parola che indica l’origine della missione del profeta e di Gesù che la applica a sé dopo aver letto il rotolo nella sinagoga. I gesti da compiere derivano dall’unzione, ma soprattutto dalla presa di coscienza di essere inviato, di aver ricevuto da parte di Dio un mandato esplicito. E’ un aspetto, carissimi tutti, che ritengo essenziale e fondamentale anche per ciascuno di noi, per l’esercizio del nostro ministero sacerdotale: la consapevolezza che siamo dei mandati, degli inviati da Dio, che abbiamo non una nostra missione, ma una sua missione da compiere. Infatti, la consapevolezza di una missione personale ricevuta da Dio è la caratteristica essenziale per ogni inviato. Essa è la sua forza e il suo sostegno di fronte alle fatiche dell’annuncio e della testimonianza. La coscienza dell’essere inviato è qualcosa di più della semplice disponibilità a eseguire degli ordini, è qualcosa di diverso dal mero invito a fare qualcosa. E’ una consapevolezza che viene dall’alto e che tocca il profondo del nostro cuore, che illumina la mente e che accende il fuoco dell’amore di ciascuno di noi. Infatti, la sorgente profonda della nostra forza e della capacità di essere annunciatori stanno nella certezza di un mandato ricevuto da Dio che ci dà il vigore per attuarlo giorno dopo giorno, pur nelle fatiche e difficoltà del tempo presente.

 

  1. Ordinati per una missione universale

Nella preghiera di ordinazione ritroviamo una sorta di ‘mandato’ iscritto nella natura più profonda del ministero presbiterale: “Siano degni cooperatori dell’ordine episcopale, perché la parola del Vangelo mediante la loro predicazione, con la grazia dello Spirito Santo, fruttifichi nel cuore degli uomini, e raggiunga i confini della terra”.  L’andare, la missione, carissimi confratelli, è iscritta nel nostro DNA di consacrati. Ogni presbitero, come collaboratore del vescovo, è ordinato per l’evangelizzazione di tutto il mondo. Rileggiamo insieme quanto, 50 anni fa, ci ha detto il Concilio nel documento Presbiterorum Ordinis al n. 10: “Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì ad una vastissima e universale missione, di salvezza, ‘fino agli ultimi confini della terra’ (Atti 1,8), dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli. … Ricordino quindi i presbiteri che ad essi incombe la sollecitudine di tutte le Chiese”. Appare così evidente che la cooperazione missionaria presbiterale, che è denominata ‘preti Fidei Donum’, non è una alternativa o una evasione rispetto alla chiamata al ministero ordinato; essa ne è, al contrario, una forma altissima e piena di realizzazione, fondata proprio sull’identità del presbitero in rapporto a Cristo e alla Chiesa.  Per un presbitero, la missionarietà scaturisce dalle coordinate essenziali della sua stessa identità.

Il Concilio ha evidenziato chiaramente il carattere missionario di tutto il popolo di Dio, fondandolo sulla natura della Trinità e sul sacramento del battesimo; l’attività missionaria pertanto riguarda tutti, in particolare chi ne sente l’urgenza e accoglie l’invio ad annunciare il vangelo. La Chiesa pertanto è per sua natura missionaria e l’andare-annunciare non è un’attività tra le tante, ma il modo di essere della Chiesa; non un privilegio o il compito di qualcuno, ma la vocazione di ogni discepolo di Cristo. Ogni Chiesa locale diventa soggetto primario della missione, coinvolta in un compito missionario globale, dentro e fuori dei suoi confini, assunta da tutti i suoi membri e rivolta a tutte le nazioni. Papa Francesco, nel testo programmatico del suo ministero petrino, l’Evagelii Gaudium, disegna una Chiesa in uscita missionaria, che pone l’annuncio del Vangelo come dimensione fondamentale e centrale dell’esistenza della Chiesa stessa, al punto da ricordare che “l’attività missionaria ‘rappresenta ancora oggi la massima sfida per la Chiesa’ e ‘la causa missionaria deve essere la prima’. … L’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa” (EG 15).  S’intuisce subito che il termine missione non è adoperato in senso generico, come quando si dice che tutto è missione, bensì in senso forte e specifico. Missione dice la natura dinamica della Chiesa, sempre estroversa e tutta proiettata verso il mondo. Una chiesa in uscita, una comunità di discepoli che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono; una Chiesa che sa fare il primo passo senza paura, che accorcia le distanze, che sa andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi (cfr. EG 24). Nel chiedere, poi, alla Chiesa un nuovo impulso missionario, papa Francesco, al n. 266 dell’EG scrive: “Il vero missionario, che non smette mai di essere discepolo, sa che Gesù cammina con lui, parla con lui, respira con lui, lavora con lui. Sente Gesù vivo insieme con lui nel mezzo dell’impegno missionario. Se uno non lo scopre presente nel cuore stesso dell’impresa missionaria, presto perde l’entusiasmo e smette di essere sicuro di ciò che trasmette, gli manca la forza e la passione. E una persona che non è convinta, entusiasta, sicura, innamorata, non convince nessuno”. Anche papa Benedetto, nell’esortazione apostolica Verbum Domini scriveva: “Nell’esortare tutti i fedeli all’annuncio della divina Parola, i Padri sinodali hanno ribadito la necessità anche per il nostro tempo di un impegno deciso nella missio ad gentes. In nessun modo la Chiesa può limitarsi ad una pastorale di «mantenimento», per coloro che già conoscono il Vangelo di Cristo. Lo slancio missionario è un segno chiaro della maturità di una comunità ecclesiale” (95).

Nel vangelo di Marco (3,14) leggiamo che Gesù “ne costituì Dodici – che chiamò apostoli – perché stessero con Lui e per mandarli a predicare”. Il rapporto tra lo stare e l’andare è circolare. E’ stando con Gesù che si comprende la necessità dell’andare: perché andare? dove andare? cosa annunciare? Dall’altra parte è proprio andando dietro di Lui che si realizza il nostro stare veramente con Gesù, che si accoglie e si comprende la sua proposta di vita. In questo ritroviamo anche il fondamento dell’universalità dell’annuncio che Gesù chiede ai suoi discepoli. Un’universalità che si impara sotto la croce, perché l’universalità non significa essere presenti dappertutto ma che il Figlio di Dio muore per tutti. Il per tutti è la direzione obbligatoria perché ogni gesto pastorale possa dirsi evangelico.  La missione ad gentes non è da intendersi come il punto di arrivo di una proposta globale di pastorale, quasi ne fosse l’ultima tappa di un lungo percorso, ma è l’orizzonte da cui partire per comprendere ogni forma corretta di attività pastorale. La missione dice un modo di fare pastorale, prima che essere un luogo; un modo di essere Chiesa, perché la nota costante è e deve sempre essere il per tutti, l’andare oltre, non stancarsi mai di cercare. I vescovi italiani, nel documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia hanno sintetizzato molto bene questa idea: “La missione ad gentes non è soltanto il punto conclusivo dell’impegno pastorale, ma il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza. Proprio la dedizione a questo compito ci chiede di essere disposti anche a operare cambiamenti, qualora siano necessari, nella pastorale e nelle forme di evangelizzazione, ad assumere nuove iniziative, «fiduciosi nella parola di Cristo: Duc in altum!” (32).

A questo punto mi sembrano necessarie due considerazioni più operative, legate al cammino che la diocesi e le comunità parrocchiali stanno facendo, in merito ad una pastorale più missionaria, all’avvio delle Unità Pastorali e alla modalità concreta del nostro essere ed esercitare il ministero sacerdotale.

 

  1. Per una pastorale missionaria

La prima riflessione riguarda l’avvio di una pastorale in chiave missionaria, proprio all’interno di questa nuova e difficile transizione pastorale, che vede la chiesa diocesana, le parrocchie e anche la nostra modalità di essere preti, passare da una pastorale di conservazione ad un pastorale di annuncio. Essere una Chiesa ‘aperta alla missione’, una Chiesa che si sente coinvolta nella missione ad gentes, dove nessuno – vescovi, sacerdoti e diaconi, religiosi e religiose e fedeli laici – si sente estraneo alla responsabilità dell’annuncio, significa far si che tutti i settori e gli ambiti della pastorale, e ancora più specificatamente i soggetti della pastorale, siano caratterizzati e innervati di sensibilità missionaria. Non si può più pensare alla propria parrocchia come a un luogo ristretto e rinchiuso dentro confini geografici. L’attività e l’azione pastorale dovranno sempre di più tener conto dei ‘luoghi di vita’ come il lavoro, l’ufficio, la fabbrica, l’ospedale, la scuola o l’università, la famiglia e le amicizie, il tempo libero; l’attenzione pastorale è chiamata ad aver presente la diversità di culture e di fedi, la varietà di valori e punti di riferimento che non sono più quelli comuni a tutti. E’ una Chiesa, la nostra, che è dentro ma anche sempre fuori, nei luoghi abituali di vita e di relazione delle persone. Ciò comporta anche per noi consacrati di accogliere e di vivere uno stile più missionario di esercizio del ministero. Non siamo più i pastori di una Chiesa che vive in un contesto prevalentemente cristiano; pertanto la cura pastorale non potrà più accontentarsi di aspettare quelli che vengono e si accostano per chiedere i sacramenti, anche se non diminuiscono le urgenze legate ad una ordinarietà pastorale da garantire.  Dobbiamo soprattutto concepirci come annunciatori del Vangelo nell’atto in cui diamo testimonianza attraverso le scelte di vita personali ed ecclesiali. Ciò chiede coraggio. Non è facile l’esercizio del ministero nel nostro tempo, anche per quella tensione che ci portiamo dentro e che possiamo così riassumere: s’investe sempre maggiore tempo, energie e risorse per un numero progressivamente ridotto di credenti e non si riesce a liberare spazi e tempi più ampi per una pastorale più creativa ed estroversa a servizio dei molti che non hanno nessun legame con la comunità cristiana, o dove quei legami, pur esistenti un tempo, ora per tanti motivi si sono allentati. E’ necessario maturare una sintesi tra ‘cura del gregge’ e ‘nuove frontiere di evangelizzazione’.

Alcune scelte sono però urgenti e necessarie. Ne ricordo alcune, che fanno già parte del progetto e del cammino pastorale della nostra Chiesa. La prima, che riguarda principalmente noi sacerdoti, è data dalla coscienza che siamo un presbiterio. Non è detto che possiamo fare tutto e abbiamo le capacità per fare tutto, ma dovremmo essere capaci di stimarci a vicenda, di apprezzare i doni che il Signore ci ha dato, di essere accoglienti e capaci di buone e sane relazioni tra di noi, superando le inevitabili differenze, valorizzando i momenti di comunione e di vita fraterna, indispensabili soprattutto ai nostri giorni. Dovremo poi adoperarci per ricondurre le nostre strutture parrocchiali a una maggiore semplicità evangelica, così da renderle ambiti che richiamano nella loro trasparenza l’amore e la misericordia del Padre per tutta l’umanità. Ancora una volta ci confermiamo nella bontà della scelta già assunta di favorire in noi e nelle nostre comunità uno stile di vita genuino e accogliente, attenti alle povertà della nostra gente e del nostro territorio. Il segno di solidarietà che oggi poniamo non è il primo e non è l’ultimo, ma si inserisce in una consolidata attenzione per le necessità dei fratelli che vibra nel cuore del mandato e che nel segreto – noto solo al Padre – ci vede protagonisti quotidianamente nella carità non del superfluo ma della condivisione.  Un altro aspetto è di adoperarsi realmente per far crescere la corresponsabilità all’interno delle nostre comunità parrocchiali, anche attraverso l’avvio delle Unità Pastorali. La missione è vocazione della Chiesa tutta e non solo del prete. Dobbiamo evitare di sovraccaricare il ministero ordinato di compiti e funzioni che appartengono alla comunità nel suo insieme e ai laici in particolare. “Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola” (Atti 6, 2.4). Le giovani Chiese in questo campo ci sono di aiuto per ripensare a una pastorale effettivamente di comunione e di corresponsabilità: dove i laici sono in grado di assumersi dei ministeri e dei servizi, superando quel ‘clericalismo’ che talvolta è ancora presente nelle nostre comunità. Alcune espressioni di papa Francesco dell’Evangelii Gaudium ci aprono il cuore e ci danno forza e coraggio nell’intraprendere questo cammino. “La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia (n.33). Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa (n.35)”.  

 

  1. Perché partire per la missione ad gentes?

Formulo la seconda riflessione con una domanda ben precisa: ha ancora senso che qualche nostro presbitero diocesano e qualche laico partano per la missione ad gentes? Certamente, perché il crescere e il maturare di una pastorale missionaria, di uno stile di Chiesa non chiusa ma aperta al mondo e all’annuncio del vangelo a tutti, si rafforzano e si consolidano attraverso il segno della partenza di qualcuno della nostra diocesi in altre terre lontane. La Chiesa, nelle sue scelte e nei suoi documenti, a partire dal Vaticano II in poi, ci ha abituati a sentirci ed essere e pensarci Chiesa solo se ci apriamo al mondo, solo se ci sentiamo Chiesa universale, nel senso più ampio del termine. Sono convinto dell’importanza e della necessità per la nostra Chiesa locale di riappropriarci di questo respiro universale della Chiesa e di riprendere con coraggio l’avventura della missione, di non aver paura di inviare concretamente qualche sacerdote diocesano e qualche laico/a, giovane e famiglia per l’attività missionaria ad gentes.  Lo so che non è facile e che molti pensano – qualcuno me l’ha detto – che la missione sia anche da noi, nelle nostre terre e parrocchie, dove molti non credono; che i preti siano pochi; che sia più difficile l’evangelizzazione in Italia e l’annuncio nei confronti di chi non crede; che l’emergenza sia qui da noi!

Carissimi confratelli, la partenza di sacerdoti e laici per la missione, sono convinto che porterà e farà sentire la missione nel cuore della nostra gente e delle nostre comunità, come una realtà che riguarda non solo chi parte, ma tutti. La partenza di alcuni per la missione, ne sono più che certo, incrementerà una partecipazione più corresponsabile alla vita della comunità diocesana e parrocchiale e aiuterà a percepire e vivere meglio i valori evangelici dell’essenzialità, della giustizia e della pace, i tratti della condivisione e l’apertura alla mondialità e ai problemi dei più poveri del mondo. Se la nostra diocesi, regalasse dei preti e dei laici per la missione universale della Chiesa, sarebbero un dono e una grazia veramente grande che il Signore ci concede.  L’apertura missionaria non impoverisce la nostra diocesi e le nostre comunità e nemmeno il presbiterio. Tanto più il presbitero avverte la sollecitudine per tutte le Chiese, tanto meglio realizzerà il suo ministero nella Chiesa, sentendosi inviato a testimoniare e portare il vangelo a tutti, soprattutto a coloro che si sono allontanati dalla comunità. Se desideriamo che in diocesi e nelle parrocchie la fede riprenda vigore e freschezza, che aumentino le vocazioni alla vita matrimoniale, che riprendano a fiorire le vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata, apriamoci alla missione e riprendiamo con gioia l’invio di sacerdoti, consacrati e laici a portare il vangelo fino agli estremi confini della terra. San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptoris Missio, ci ricorda che “La fede si irrobustisce donandola”.

A tutti auguro, in questi giorni, di vivere intensamente e di partecipare con gioia al Mistero Pasquale che è la nostra salvezza.

 

 

                                                                                              + Giuseppe Pellegrini

Pordenone
02/04/2015
33170 Pordenone, Friuli Venezia Giulia Italia