Meditazione Ritiro del Clero

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Omelia

Seminario, 19 settembre 2022

Meditazione Ritiro del Clero

Introduzione

La fraternità presbiterale viene riconosciuta da molti come un valore prezioso, anche se in maniera differenziata. C’è chi la sente come un valore costitutivo e irrinunciabile del ministero, chi non si preoccupa di teorizzarla, ma vive con passione e interesse alcuni aspetti pratici della vita fraterna, quali gli incontri diocesani di formazione e di spiritualità, gli incontri in Unità o Comunità Pastorale. Altri, invece, vivono la dimensione fraterna come amicizia tra preti o come un aiuto pastorale nelle varie necessità celebrative. C’è chi la vede anche come un antidoto alla solitudine. Una delle motivazioni che rende difficile e faticosa la fraternità tra preti consiste nel fatto che molti hanno poca dimestichezza della vita fraterna vissuta. Oltre a quella vissuta nella famiglia naturale, l’unico modello vissuto è quello del seminario. In generale la comunità del seminario è molto particolare, perché fondata principalmente su gerarchie ben definite: i giovani seminaristi, gli educatori e i professori.  Il rischio è che appena si diventa preti, molti rifiutano questo modello, non avendo mai vissuto una “normale” vita fraterna da uguali e distinti. Mi sembra di capire che nel nostro presbiterio ci sia una percezione complessivamente positiva e di disponibilità cordiale verso la fraternità tra preti, anche se, talvolta, solo teoricamente, mentre poi nella vita concreta e nel vissuto personale si fa fatica a viverla. Molti sentono il bisogno di stimarsi a vicenda, pur avvertendo la difficoltà di essere sinceri nel dire le cose. Fondamentale la stima reciproca, altrimenti non si potrà mai creare e vivere la fraternità. Talvolta la vita fraterna è cercata è vissuta solo come funzionale al ministero o sentita come un peso. È necessario che sempre più la consideriamo come un dono per tutti noi.

Carissimi confratelli, ci troviamo ad una svolta e non possiamo più fermarci a guardare o tornare indietro, come ci ricorda Gesù nel Vangelo: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Luca 9,62). Il nostro modo di essere preti e di fare i preti deve cambiare. Certamente non potrà avvenire per imposizione o per decreto dall’alto. E nemmeno devono essere le condizioni naturali ed esterne a imporcelo (penso alla grave crisi economica ed energetica che stiamo vivendo e che ci chiederà di metterci insieme per risparmiare). Siamo chiamati alla fraternità per essere più fedeli e per recuperare il mandato ricevuto da Gesù, tramite la Chiesa, nel giorno della nostra ordinazione: essere portatori con la testimonianza viva della nostra vita che Dio ci ama, che ci vuole bene e vuole il nostro bene. I primi cristiani venivano riconosciuti e stimati per l’amore vicendevole. Si diceva di loro: guardate come si amano (cfr. Tertulliano, Apologia 39). Anche i pagani si convertivano perché vedevano la bellezza e l’importanza del loro volersi bene. Non un amore virtuale, fatto di parole ma reale e concreto: l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo. La vita eucaristica, la preghiera, la predicazione degli apostoli e l’esperienza della comunione e della fraternità, fanno dei credenti un gruppo di persone che hanno “un cuore solo e un’anima sola e che mettono tutto in comune (cfr. Atti 2 42-47; 4,32-35). Se questo deve essere lo stile di vita di ogni cristiano che desidera seguire Gesù, tanto più lo deve essere per noi presbiteri, legati da un vincolo sacramentale. Una delle più pericolose patologie che minacciano il corpo ecclesiale e la Chiesa di oggi, è l’incapacità di perseverare nella comunione.

Alcuni spunti e citazioni dalla Parola di Dio

“Ecco com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme” (Salmo 133,1). Questo è un salmo graduale, un inno alla preziosità della vita fraterna. Essa è gradita Dio come l’olio della consacrazione sacerdotale (v.1-2), ed è una benedizione di Dio come la rugiada fresca di montagna sul paesaggio arido della Giudea. La fraternità è, per così dire, il distillato dell’esperienza della paternità divina: chi conosce Dio come Padre, necessariamente sente crescere la simpatia e la misericordia verso l’umanità. Siamo cos’ invitati a percepire la fraternità non come un obbligo né come una necessità dei tempi odierni, ma come una benedizione, come ‘un peso di Grazia’, scriveva Bonhoeffer nella Vita comune. “Nella Chiesa – scriveva Yves Congar nel libro del 1968, Vera e falsa riforma nella chiesa – ogni processo di rinnovamento domanda una lealtà, una purezza e una trasparenza che si conquistano e si affermano molto più facilmente quando gli uomini si rendono testimonianza e si aiutano, fraternamente, gli uni gli altri. Una vita comune e fraterna svolge, in maniera immediata e come su scala ridotta, il ruolo di mutuo controllo, di rettificazione, di complementarietà”. Per noi consacrati, la fraternità ha una radice sacramentale. Diceva Papa Benedetto XVI, il 12 febbraio 2021, alla fraternità di San Carlo Borromeo ricordava: “Nessun sacerdote amministra qualcosa che gli è proprio, ma partecipa con gli altri fratelli a un dono sacramentale che viene direttamente da Gesù. La vita comune, perciò, esprimi un aiuto che Cristo dà nostra esistenza, chiamandoci attraverso la presenza dei fratelli, ad una configurazione alla sua persona. Vivere con gli altri significa accettare la necessità della propria continua conversione… Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri”.

“Sali poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici -che chiamò apostoli- perché stessero con lui e per mandarli a predicare” (Marco 3,13-14). Prima di tutto gli apostoli sono chiamati a vivere la comunione tra di loro. La loro concreta fraternità è la loro prima testimonianza e forma di evangelizzazione. Infatti, la prima testimonianza a Cristo e al Vangelo passa attraverso la capacità di relazione, la capacità di incontro e di sopportazione e magari anche la concreta carità vissuta reciprocamente. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13 35). Anche noi siamo chiamati a vivere la comunione e la fraternità tra di noi, pena la smentita del ministero e la non credibilità. Prima di ogni attività e preoccupazione pastorale, organizzativa e amministrativa, direi ancora prima di ogni gesto e attività cultuale, il ministero presbiterale si caratterizza per la fraternità tra di noi. Diceva papa Francesco il 3 ottobre 2014, alla plenaria della Congregazione (ora Dicastero) per il Clero: “I sacerdoti sono uniti in una fraternità sacramentale, pertanto la prima forma di evangelizzazione è la testimonianza di fraternità e di comunione tra loro e con il vescovo”. Siamo servi della comunione ecclesiale, chiamati a superare ogni forma di individualismo e di isolamento. Gesù mandò a predicare i suoi discepoli “a due a due” (Marco 67; Luca 10,1).

Anche nella nostra diocesi, come in molte altre, si evidenzia una difficoltà concreta nel realizzare la vita fraterna. Difficoltà causate dallo spostarsi da un paese all’altro, talvolta lontani tra loro, senza il tempo di incontrare le persone. Anche da noi, numerosi presbiteri hanno la cura pastorale di più parrocchie, spesso da soli o in solido, nelle Unità o Comunità pastorali. È una situazione che ci chiede un serio discernimento, perché saranno sempre più le parrocchie che dovranno fare i conti non solo con la scarsità del clero, ma anche con la valorizzazione dei ministeri laicali, per la cura delle comunità. Certamente l’Assemblea sinodale che comincerà domenica 16 ottobre, dovrà rifletterci e offrire alcune soluzioni possibili. Ogni decisione che siamo chiamati a prendere, comporterà scegliere qualcosa e rinunciare a qualche altra. Importante sarà scegliere il bene per l’oggi. A mio avviso è essenziale che le scelte tengano conto della necessità e dell’importanza di testimoniare come preti la fraternità sacerdotale e da qui far scaturire l’azione pastorale, come ha fatto Gesù con gli apostoli e discepoli: stare insieme con lui e poi andare a predicare. Questo aspetto dovrà diventare il criterio pastorale della testimonianza, fondamentale soprattutto ai nostri giorni: testimoniare con scelte concrete di vita quanto i presti si amano e si vogliono bene.

San Paolo, nelle sue lettere, richiama spesso alcuni atteggiamenti necessari per favorire la comunione e la fraternità, così come ricorda alcune ‘tarme’ che corrodono la tunica della Chiesa. Come in natura le tarme depongono le uova al buio, creando così l’illusione di essere un solo corpo, ma senza avere un solo spirito, una sola anima. Lo si vede quando si tocca un mobile pieno di tarme: sembra perfetto ma appena lo si tocca crolla tutto.

In Colossesi 3,12-15, Paolo chiede che i rapporti interpersonali tra noi siano basati sulla carità vicendevole e sulla magnanimità. Essere magnanimi significa guardare lontano. La fraternità sacerdotale non è un vago affetto ma una realtà organica che ha bisogno non solo di fare spazio al principio della gratuità, ma anche di fare appello alla condivisione della casa e, pure, dei beni. Una comunione solo di tipo spirituale, che non coinvolgesse la vita quotidiana, sarebbe artificiosa e anche pericolosa. “Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!”.

In Filippesi 2,1-4, ci chiede di mantenere l’unità nell’umiltà. Volere il bene degli altri, ecco il fondamento della vita fraterna. “Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”.

San Paolo indica anche alcune specie di ‘tarme’ che logorano il presbiterio diocesano e rovinano la comunione fraterna.

  • La diffidenza a gareggiare nello stimarsi a vicenda (cfr. Romani 12,10);
  • la resistenza a sopportarsi a vicenda nell’amore (cfr. Efesini 4,2), a riconoscere che “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune” (1Corinzi 12,7) e a perdonarsi gli uni gli altri (cfr. Colossesi 3,13);
  • la reticenza a “ammonite chi è indisciplinato, fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete chi è debole, siate magnanimi con tutti” (1Tessalonicesi 5,14).

Alcune considerazioni pratiche

Queste considerazioni nascono dalla vita concreta e da quanto alcuni vescovi hanno detto al loro presbiterio. Non sono né in ordine di importanza né di grandezza, ma tratti dalla vita concreta.

La fatica di amare chi non si è scelto

L’attenzione alla vita fraterna implica una vera attenzione agli altri e a se stessi. Prima di essere presbiteri siamo uomini chiamati ad amare. E amare non è facile, non solo per le coppie ma anche per noi. Occorre, pertanto, esercitarsi nell’arte di amare, perché l’amore chiede rispetto, accoglienza e carità, soprattutto quanto non ci si sceglie. Si tratta di andare al di là della sola simpatia o antipatia, per mettere in atto un amore secondo il Vangelo. Abbiamo visto che molto spesso la fatica di vivere la fraternità nasce dalla paura della conversione e dalla paura del cambiamento. Tertulliano scriveva: “Unus christianus, nullus christianus”, perché il cristiano esiste sempre in un corpo, in una relazione con gli altri. Ecco perché è importante, per noi presbiteri che guidiamo una comunità, sperimentare per primi la bellezza e anche la fatica del vivere in comunità.

Il prevalere del ruolo

Essere guidati dal ruolo che siamo chiamati a svolgere, ci porta talvolta a sentirci e a vivere come funzionare, magari bravi ed efficienti, iperattivi, sempre pronti a fare quello che ci chiedono, ma dimenticandoci, però, la cosa più importante per vivere in profondità il nostro ministero: la salvaguardia della propria umanità e delle virtù umane, nella relazione con gli altri. Una relazione fatta di ascolto e di simpatia, non di pregiudizi o di risposte preconfezionate. Notiamo spesso che è più facile fare da soli, essere piccoli manager. Siamo chiamati, invece, ad essere servi della comunione e testimoni dell’amore che ci viene dato da Dio è trasmesso dalla Chiesa. La comunità non deve funzionare con un’azienda, ma come un corpo con differenti funzioni che portano all’unità.  Vi invito a meditare spesso quanto dice San Paolo nella 1Lettera ai Corinzi 12, 12-30, nel paragone del corpo.

Chiamati ad esplorare la frontiera della vita comune e fraterna

La Presbiterorun Ordinis al n.8 ci invita ad accogliere senza paura la vita fraterna tra presbiteri. “Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale; … sia incoraggiata fra di essi una certa vita comune o una qualche comunità di vita, che può naturalmente assumere forme diverse, in rapporto ai differenti bisogni personali o pastorali: può trattarsi, cioè, di coabitazione, là dove è possibile, oppure di una mensa comune, o almeno di frequenti e periodici raduni”. Sebbene la vita comune non possa essere imposta, come vescovo ho la responsabilità di sostenerla, incoraggiarla e promuoverla nei vari modi. Non solo nella predicazione e nelle esortazioni, ma anche concretamente, intercettando le affinità e compatibilità di tipo relazionale tra alcuni presbiteri e proponendola come scelta di vita nella nostra Chiesa diocesana. È quello che stiamo facendo da anni con le Unità Pastorali e ora in modo più preciso con le Comunità pastorali, chiedendo ai presbiteri di vivere insieme e soprattutto di camminare insieme, anche con i laici, nella progettazione pastorale di ogni parrocchia. Sarà un’opportunità per scrivere una nuova pagina della nostra Chiesa diocesana, ma non tanto di geografia ecclesiastica, ma un capitolo nuovo della spiritualità del presbitero diocesano. Spesso siamo anche noi e anch’io ancora troppo preoccupati e condizionati dalle emergenze pastorali, ignorando che il conferimento di un Ministero pastorale non è l’attribuzione di un compito individuale ma una partecipazione alla missione del vescovo dentro un presbiterio. L’insidia più sottile e più dannoso per un prete e l’isolamento, perché mina la stabilità psico-affettiva e spirituale, non tanto perché vive da solo in canonica, quanto perché crea un clima di ‘impietosa freddezza’ di fronte ad ogni proposta di incontri di spiritualità e di formazione.

Conclusione

Per noi presbiteri la vita insieme e la fraternità sono una meta, un orizzonte a cui tendere; un già e non ancora, perché sempre in cammino. È necessario pertanto passare dal piano solo personale e ‘del mi piace’ alla consapevolezza che la vita fraterna è necessaria per la pastorale e per la coerenza del ministero sacro ricevuto. Abbandoniamoci all’azione dello Spirito Santo e alla sua forza, che ci vuole testimoni dell’amore di Dio tra gli uomini e donne del nostro tempo, insieme come fratelli.

+ Giuseppe Pellegrini
Vescovo

Seminario Vescovile di Pordenone
19/09/2022