S. Messa del Crisma e X Anniversario Ordinazione Episcopale

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Omelia S. Messa del Crisma e X Anniversario Ordinazione Episcopale

Concattedrale Pordenone, 1° aprile 2021

 

Mandati a portare il lieto annuncio

 

Carissimi fratelli e confratelli, un saluto carico di affetto a voi presenti e a coloro che per diversi motivi, di lontananza – penso ai nostri Fidei Donum in missione – di salute, di vecchiaia o di comprensibili timori, non sono presenti e ci seguono via streaming. In questo clima di insicurezza e spesso anche di solitudine e di provvisorietà, è bello trovarci insieme come fratelli e sorelle attorno all’altare nella Messa crismale, per affermare che la nostra unità, fondata sulla comune vocazione battesimale e per molti di noi anche ministeriale, è più forte dei pericoli e delle difficoltà che ci sovrastano, perché Lui, il Signore Gesù è con noi e non ci abbandona mai. In particolare noi che abbiamo ricevuto l’ordine sacro, gustiamo il dono di essere insieme, intimamente uniti a Dio e tra di noi. Rinnoveremo le promesse sacerdotali proprio per confermare il dono ricevuto e per metterci con più generosità e disponibilità a servizio della Chiesa e del mondo.

Ringraziamo il Signore che ci radunato oggi, perché “ci ama e ci ha liberato dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Apocalisse 1,5-6). Sacerdoti non siamo solo noi inseriti nell’ordine sacro, ma tutto il popolo di Dio che con il battesimo è diventato popolo sacerdotale. L’inizio della attività terrena di Gesù ha il suo fondamento in ciò che Dio ha operato in Lui al Giordano. È infatti nel battesimo che Gesù è stato unto di Spirito Santo e di potenza. La sua attività si fonda sulla missione, sull’invio che in quell’oggi diventa realtà. Anche se la pandemia ci ha impedito di essere riuniti tutti insieme, un solo popolo di Dio, siamo qui a chiedere che il suo Santo Spirito apra i nostri cuori e attraverso il santo Crisma ci trasformi e ci renda capaci di essere nel mondo testimoni del suo amore, uomini e donne che accolgono lo stile di vita del Signore Gesù e lo diffondono dappertutto. Vi invito a vivere così la celebrazione di quest’anno. Ogni tempo e ogni storia, anche se complessa e difficile come quella dei tempi nostri, appartengono al Signore a attendendo il compimento. Come ha fatto Gesù nella sinagoga di Cafarnao, apriamo anche noi il rotolo della Parola di Dio per annunciare al mondo e all’umanità, provata e colpita dalla pandemia, alle nostre comunità un po’ stanche e disorientate, non le solite frasi scontate di convenienza, non strategie pastorali o nuove attività, ma strade evangeliche di fede, di amore, di sobrietà, di essenzialità, di condivisione, di autentica fraternità e di cura e custodia del creato e della casa comune.  Gesù ci chiede di far risuonare anche oggi nel mondo la sua Parola che allarga i nostri orizzonti. Rileggendo il profeta Isaia, Gesù si dice inviato a quattro categorie ben precise di persone: poveri, prigionieri, ciechi e oppressi. Prima che pensare agli altri, in questa celebrazione, siam invitati a pensare a noi. Siamo consapevoli che la Parola di Dio, prima di tutto, viene rivolta personalmente a ciascuno di noi. Noi siamo i poveri ai quali Gesù porta il lieto annuncio. In quest’anno anche noi presbiteri e laici con le nostre comunità ci siamo impoveriti, e non solo economicamente. Siamo noi i prigionieri, spesso rinchiusi nel nostro io e incapaci di aprirci al confratello. Noi i ciechi perché presi dalle tante cose da fare e dalle tante attività, non siamo capaci di vedere le sofferenze delle persone, di entrare nel loro cuore e di ascoltarle. Noi gli oppressi perché fragili e deboli. Se non partiamo da noi stessi, difficilmente saremo capaci di accorgerci e di esser vicini a coloro stanno vivendo situazioni di povertà e di fatica. Evangelizzati per evangelizzare. Gesù conclude la citazione del profeta Isaia con una parola di speranza. Si sente consacrato per “proclamare l’anno di grazia del Signore” (Luca 4,19). Solo Lui può liberarci dalle nostre paure e debolezze, perché è inviato a sperimentare per primo l’abbandono e la sofferenza, portando su di sé tutti i nostri peccati.

Carissimi, affrontiamo con serenità questo tempo; è passato un anno e ancora non siamo giunti alla fine del tunnel. Sappiamo però che ci aspetta un anno di grazia, un anno da vivere uniti strettamente al Signore, in solidale fraternità tra di noi e in condivisione con i fratelli e le sorelle, soprattutto con chi fa più fatica a vivere. Sentiamo la forza di questa consacrazione e di questo mandato soprattutto davanti al dolore e alle sofferenze di tante persone colpite dalla malattia, dalla morte di qualche caro, quanti anziani, e dalla crisi sociale ed economica che sta investendo le nostre famiglie. Assumiamo lo sguardo di Gesù che aiuta a fermarsi davanti alle ferite e ai bisogni degli altri, per incontrare, capire, curare e accompagnare. Ci aspettano gli anziani e gli ammalati, i giovani e i ragazzi, i lavoratori e le famiglie, gli stranieri e le tante persone che sono ai margini della società. Siamo consacrati anche per aiutare le persone e le nostre comunità cristiane a crescere nella fede e nell’amore del Signore. Favoriamo la partecipazione all’Eucaristia domenicale che ci fa sentire popolo di Dio radunato per ringraziare e celebrare le meraviglie del Signore.

Alla luce di tutto ciò, ci soffermiamo a considerare la missione che il Signore ha affidato in modo speciale a noi consacrati nel ministero, cercando di individuare quanto il nostro cammino sia stato fedele all’invio che abbiamo ricevuto dal Signore nel giorno della nostra ordinazione. Rinnovando le promesse sacerdotali, ci verrà chiesto di lasciarci guidare non da interessi umani, ma dall’amore verso i fratelli. Ci viene chiesto di camminare insieme con la gente, di vivere la comunione fraterna, rimanendo sempre a disposizione di tutti. Questa è la vocazione specifica del presbiterio diocesano. Forti le parole del priore dei monaci cistercensi di Tibherine, in terra d’Algeria, quando la comunità doveva decidere se rimanere o abbandonare il monastero: “La nostra vita è già stata donata una volta per sempre. Perciò decidiamo di restare, ben consapevoli del rischio che affrontiamo, ma in piena fiducia nel Signore”. Anche noi nonostante i tempi non facili, siamo consapevoli dell’importanza di restate, di camminare con le nostre comunità, anche se un po’ sgangherate, anche se non sempre sappiamo quali scelte operare o quali decisioni prendere, chiamati spesso a ‘navigare a vista’. Certamente non vogliamo mollare. Il cammino sinodale che stiamo vivendo, così tanto desiderato da papa Francesco, ne è la prova. Il Signore ci sta preparando una nuova stagione di Chiesa, chiedendoci scelte coraggiose che daranno un nuovo impulso al nostro agire pastorale. A noi il compito di ripartire da Dio, lasciando che sia Lui a rendere fecondo il nostro impegno e i nostri sforzi.

Tra le tante considerazioni che potremo fare, ne scelgo due che ritengo indispensabili per verificare la nostra fedeltà al mandato ricevuto dal Signore: l’ascolto e la relazione. Spesso in questi anni sono ritornato su questi due aspetti. È mio desidero riprenderli ancora, per il cammino personale e per il rinnovamento delle nostre comunità. Senza ascolto e senza relazioni, non si potrà dare un volto nuovo alla Chiesa. Sono necessarie una pastorale dell’ascolto e delle relazioni. Non intendo sviluppare ora questi due aspetti, ma solamente richiamarli. Parlando di ascolto, è fondamentale collocarlo all’interno di un intreccio fecondo tra la dimensione verticale e orizzontale. Non ci può essere l’una senza l’altra. Ogni credente, e dunque anche noi consacrati, siamo innanzitutto ascoltatori della Parola, perché “la fede viene dall’ascolto” (Romani 10,17). Nel discorso di Paolo ai presbiteri di Efeso troviamo un significativo invito: “E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia” (Atti 20,32). Paolo non affida la Parola a noi, ma noi alla Parola. Prima di predicare e di testimoniare, prima di portare agli altri la Parola, è necessario che noi ministri ascoltiamo la Parola, che ci lasciamo portare dalla Parola. Essere affidati alla Parola non è un augurio ma un impegno assiduo di ascolto della Parola fatto di meditazione e di esperienza quotidiana vissuta, fatto di preghiera per essere uno con Cristo. Un ascolto che ci porta anche ad ascoltare le persone. Diceva Saint-Exupery che “amare vuol dire soprattutto ascoltare in silenzio”. Non è facile nemmeno per noi saper ascoltare veramente le persone. Talvolta sembra inutile, se non una perdita di tempo. Scriveva papa Francesco nel messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali del 2016: “Ascoltare è molto più che udire. L’udire riguarda l’ambito dell’informazione; ascoltare, invece, rimanda a quello della comunicazione, e richiede la vicinanza. L’ascolto ci consente di assumere l’atteggiamento giusto, uscendo dalla tranquilla condizione di spettatori, di utenti, di consumatori. Ascoltare significa anche essere capaci di condividere domande e dubbi, di percorrere un cammino fianco a fianco, di affrancarsi da qualsiasi presunzione di onnipotenza e mettere umilmente le proprie capacità e i propri doni al servizio del bene comune. Ascoltare non è mai facile. A volte è più comodo fingersi sordi. Ascoltare significa prestare attenzione, avere desiderio di comprendere, di dare valore, rispettare, custodire la parola altrui. … Saper ascoltare è una grazia immensa, è un dono che bisogna invocare per poi esercitarsi a praticarlo”. L’arte dall’ascolto ci permette di leggere in profondità il mondo delle nostre relazioni, attraverso i sentimenti e le emozioni e ci permette anche di cogliere ciò che in noi è maschera e apparenza, aiutandoci a dare un senso profondo alla nostra esistenza. È sempre necessario, nella pastorale, una sosta di ascolto delle persone, delle storie, delle lacrime e delle gioie declinate nella quotidianità del vivere.

L’atra parola altrettanto importante è relazione. La Pastores dabo vobis ci ricorda che il prete è un uomo in relazione, elemento essenziale per chi è chiamato ad essere responsabile di una comunità. Se un prete – scrive il vescovo Erio Castellucci – stringe relazioni significative con i laici, specialmente con alcuni confratelli, oltre che con il vescovo, può affrontare gli ostacoli del cammino: le delusioni pastorali, le aridità spirituali, le difficoltà affettive. Ma se cammina da solo, basterà poco a fermarsi. La relazione è così importante che quando è carente o malata, porta alla crisi. Siamo chiamati a verificare seriamente la qualità delle nostre relazioni con la gente e tra di noi. Più volte papa Francesco ha richiamato i vescovi a vigilare sulla formazione dei futuri presbiteri, ritenendo di fondamentale importanza la capacità di relazione, necessaria per l’ordinazione. Ciò che rende bella e fruttuosa la vita di un ordinato, è la capacità di entrare in relazione con gli altri. Dedicare il proprio tempo ad ascoltare e a relazionarsi con la gente e i confratelli è un’esperienza umana e spirituale straordinaria. Incontrare l’altro, non per vendere qualcosa o per qualche vantaggio, ma per prendersi cura della sua vita, da una grande gioia. Ma vivere la relazione non è facile, perché esige che il consacrato giunga ad una maturità umana e spirituale, tale da vincere il proprio egoismo attraverso atti di donazione nel quotidiano. Il sacerdote non è mai un solista del bene!

Carissimi, naturalmente quello che ho detto per i preti e per i diaconi, vale a maggior ragione anche per il vescovo, chiamato a presiedere e a servire la vita della Chiesa locale. Anch’io, ricordando il 10° anniversario dell’Ordinazione episcopale e del servizio pastorale nella nostra Chiesa di Concordia-Pordenone, a fronte di un serio esame di coscienza, emergono le tante inadempienze, le fatiche e difficoltà di rispondere pienamente ad una chiamata che fin da subito ho considerato un grande dono ma anche un peso difficile da portare. Il dono dell’’episcopato non cambia la natura umana e il proprio carattere, con pregi ma anche difetti e limiti. Sono contento e felice di essere con voi, del presbiterio che il Signore mi ha donato e della comunità che mi chiama a servire. Vi confesso che in questi anni non mi sono mai sentito solo o abbandonato. Nonostante le mie piccolezze, il mio carattere e la mia umanità, mi sono sforzato e mi sforzo di mettere non me stesso e i miei desideri, ma la volontà di Dio e le vostre attese al centro del servizio che la Chiesa mi chiede. Essere fratello e padre allo stesso tempo non è facile. Di solito si chiede ai padri di non essere fratelli dei propri figli. Il ministero ordinato mi lega a voi come fratelli e il servizio episcopale mi chiede di essere padre. Non è sempre facile viverlo; anzi è una delle fatiche più grandi. Ma non tanto perché talvolta devo prendere delle decisioni che accontentano alcuni e scontentano altri, né perché mi fa paura qualche critica, ma il sapere che alcune scelte feriscono la serenità dei rapporti.  Chiedo al Signore, nel decimo anniversario dell’ordinazione episcopale, una fede più forte e più profonda, una capacità ancora più grande di ascolto dei preti e delle persone e un cuore più generoso per rispondere ai bisogni dei più poveri. Chiedo anche a voi, cari confratelli un dono: che nella nostra Chiesa cresca ancora di più la fraternità e la comunione autentica, l’ascolto vicendevole nella carità tra noi pastori e con il popolo di Dio.

Sono consapevole che non avrei potuto e non potrei servire bene la nostra Chiesa senza la collaborazione di tanti di voi che con competenza e generosità, condividete con me l’amore e la gioia di portare a tutti l’annuncio del Vangelo. Aiutatemi con le vostre preghiere per chiedere al Signore di essere meno indegno della vocazione a cui sono stato chiamato. Pregate con me perché possa amare e servire questa nostra Chiesa senza riserve, con coraggio e generosità, testimone del Signore risorto. Grazie di cuore per camminare insieme, per non lasciarmi solo e per condividere la passione di essere tutti pastori secondo il cuore di Cristo. Dal profondo del cuore, a tutta la comunità diocesana, in particolare a voi presbiteri, diaconi e persone consacrate, sento di dirvi il grazie più profondo e più sincero. Grazie per esserci e per avermi accolto, voluto bene e per camminare ancora insieme. Grazie per gli stimoli che mi offrite per essere ancora di più servo paziente di questa nostra Chiesa e testimone gioioso e coraggioso dell’amore di Dio. Grazie per la vostra tenacia nell’andare avanti, anche in questi tempi non facili; per la vostra fede e carità operosa che dimostrate nell’accompagnare e nel servire le vostre comunità. Il signore vi ricompensi di tutto il bene che fate.

 

                                                           + Giuseppe Pellegrini

                                                                       vescovo