Carissime e carissimi tutti, rimessi in cammino dal Risorto che con soavità e forza ci invita a non aver paura di andare e portare in tutto il mondo il suo Vangelo (cfr. Marco 16,15), siamo qui oggi, dopo la fase dell’ascolto, per iniziare un momento importante per la nostra Chiesa diocesana: l’Assemblea sinodale. Con le parole di papa Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II, sessant’anni fa: “Gaudet Mater Ecclesia”, desidero anch’io dirvi: rallegrati Chiesa di Concordia-Pordenone perché stai vivendo un’esperienza di grazia. È già da due anni che ci siamo messi in cammino per ascoltarci e per ascoltare quanto lo Spirito sta dicendo alla Chiesa e alle nostre comunità. L’abbiamo vissuto nel tempo dedicato all’ascolto di diverse comunità e realtà del nostro territorio, nella preghiera, nell’annuncio della Parola e nella testimonianza della carità operosa, e ora desideriamo viverlo tra noi, popolo santo di Dio, in un tempo che vogliamo dedicare alla riflessione e al confronto comunitario, in gruppi e in assemblea, per trovare stile e parole per riannunciare agli uomini e donne del nostro tempo la gioia e la bellezza dell’incontro personale con Gesù nella vita e nella sua Chiesa. Sono passati sessant’anni, ma sembra che le lancette dell’orologio si siano fermate. Papa Giovanni nell’apertura del Concilio ricordava: “Dopo quasi venti secoli, le situazioni e i problemi gravissimi che l’umanità deve affrontare non mutano”. Intere popolazioni soffrono ancora per la mancanza di cibo, di acqua potabile, di cure mediche e di medicinali, di istruzione e di lavoro, calpestando la dignità delle persone, in particolare delle donne e dell’infanzia. Siamo sull’orlo di una guerra nucleare che potrebbe portare alla distruzione del mondo e dell’umanità. Nel nostro mondo occidentale, il benessere, la ricerca smisurata del piacere e l’egoismo ci stanno facendo chiudere in noi stessi, allontanandoci da Dio, dalla fede e dalla vita della comunità. Ma non dobbiamo lasciare spazio ai numerosi profeti di sventura che vanno dicendo che i nostri tempi risultano peggiori del passato. Nonostante le fatiche e le difficoltà, siamo chiamati a ricercare e vedere la realizzazione del progetto di Dio sul mondo: progetto di amore, di misericordia e di pace. Diceva ancora papa Giovanni: “Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece che imbracciare le armi del rigore”. Carissimi, non abbiate paura di gridare questo messaggio di gioia e di speranza agli uomini e alle donne del nostro tempo! Ne hanno veramente bisogno.
Nell’iniziare questa seconda fase del cammino sinodale della nostra Chiesa, desidero richiamare tre priorità necessarie per illuminare il cammino e per rispondere alla chiamata che il Signore ci sta facendo, attraverso tre parole: cambiamento, sinodalità e discernimento.
Papa Francesco, in sintonia piena con il Concilio Vaticano II, è da quasi dieci anni che ripete che è semplicemente giunto il tempo di cambiare. Cambiare è sinonimo di crescere, di evolversi, sperimentando nuove strade, nuove idee e nuovi criteri per annunciare oggi il Vangelo di Gesù. Sappiamo, però, che è faticoso e spesso resistiamo al cambiamento. Non dobbiamo angosciarci perché queste reazioni sono comprensibili e fanno parte della natura umana. Lasciare il noto per l’ignoto chiede sempre un supplemento di coraggio, ma accettare il cambiamento fa bene perché porta con sé la speranza di un miglioramento. Ricordiamoci, però, che il cambiamento non è fatto di un singolo evento ma è un insieme di passi fatti con gli altri. Nel discorso alla Curia romana del 21 dicembre 2019, spiegando le ragioni della riforma che cambiano il volto della curia, diceva: “quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza. Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. … L’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento, della parresia e della hypomoné. Il cambiamento, in questo caso, assumerebbe tutt’altro aspetto: da elemento di contorno, da contesto o da pretesto, da paesaggio esterno… diventerebbe sempre più umano, e anche più cristiano. Sarebbe sempre un cambiamento esterno, ma compiuto a partire dal centro stesso dell’uomo, cioè una conversione antropologica”. Siamo invitati anche noi ad un cambiamento della mentalità pastorale. Ogni generazione di discepoli del Signore è chiamata ad annunciare e a manifestare ai propri contemporanei la bontà del Vangelo, il suo fascino e la sua attrattiva per una vita felice. La mentalità pastorale che ci portiamo dietro, non per colpa nostra, ma per il cambiamento d’epoca, non riesce più ad essere interessante. Non dovrà essere solo un cambiamento di linguaggio, ma di metodo e di stile pastorale. Rischiamo, talvolta, che la nostra pastorale dia risposte a domande che non ci vengono poste, perché non sono più le domande della gente del nostro tempo. Dobbiamo essere capaci di far ‘innamorare’ le persone che incontriamo al Vangelo e al Signore Gesù, diffondendo nel mondo il buon profumo di Cristo. La Chiesa è invitata a stare nei cambiamenti prendendosi cura della Grazia di Dio che agisce in essi. Non abbiate paura di domandarvi: quali sono i cambiamenti necessari? Come vedere la Grazia di Dio in questi cambiamenti? Quali limiti e confini siamo chiamati a superare?
L’altra priorità da tener ben presente e da far crescere nella nostra Chiesa è la sinodalità. Papa Francesco, alla Chiesa di Roma diceva il 18 settembre 2021: “Il tema della sinodalità non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o strumentalizzare nei nostri incontri. No! La sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione. E quindi parliamo di Chiesa sinodale, evitando, però, di considerare che sia un titolo tra altri, un modo di pensarla che preveda alternative. Non lo dico sulla base di un’opinione teologica, neanche come un pensiero personale, ma seguendo quello che possiamo considerare il primo e il più importante “manuale” di ecclesiologia, che è il libro degli Atti degli Apostoli”. Precedentemente, nel Discorso per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, il papa ribadiva: “Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio. Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola “Sinodo”. Camminare insieme – Laici, Pastori, Vescovo di Roma – è un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica” (15 ottobre 2015). È da questa data che la Chiesa cattolica parla di sinodalità. Infatti nel Concilio Vaticano II non esiste nessun riferimento alla prassi sinodale e nell’Evangelii Gaudium troviamo un solo cenno alla sinodalità, invitando la Chiesa ad imparare gli uni dagli altri. Semmai possiamo dire che il Concilio ha posto le condizioni per lo sviluppo del tema, recuperando la capacita dei membri del Popolo santo di Dio, incorporati in Cristo con il battesimo, di partecipare alla vita e alla missione della Chiesa. Nel capitolo 12 della Lumen Gentium sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale appaiono ordinati l’uno all’altro e tra il sensus fidei del Popolo di Dio e il Magistero dei Pastori c’è un rapporto di feconda circolarità. Questo comporta che non si tratta di operare una qualche riforma della normativa canonica vigente, ma di fare un’opera di convincimento che porti i pastori ad essere meno clericalmente decisionisti e spinga i fedeli a sentirsi responsabili di ciò che accade nella loro comunità cristiana, in un armonico sentire.
La sinodalità, diceva papa Francesco, è un concetto facile da esprimere ma difficile da mettere in pratica. Ecco perché è importante la maturazione di una vera mentalità sinodale condivisa, in forma e stile che configuri il modo di essere e di vivere della nostra Chiesa diocesana e delle nostre comunità cristiane. Siamo Chiesa sinodale non tanto perché camminiamo insieme, ma perché siamo il Popolo di Dio che cammina sotto la guida del Signore, avendo ascoltato e riconosciuto ciò che lo Spirito dice alla Chiesa. La sinodalità non è data dalle azioni che si compiono, ma è un modo di vivere, una forma di esistenza, un essere in comunione con Cristo e tra di noi. Ossia uno stile di vita! Sant’Ignazio di Antiochia, nella Lettera agli Efesini scriveva: “Siete tutti compagni di viaggio (synodòi), portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e dello Spirito”. È una vera ‘rivoluzione copernicana’ che siamo chiamati a mettere in atto. Ci ricorda papa Francesco nel Discorso sopra citato: “In questa Chiesa, come in una piramide capovolta, il vertice si trova al di sotto della base. Per questo coloro che esercitano l’autorità si chiamano “ministri”: perché, secondo il significato originario della parola, sono i più piccoli tra tutti. È servendo il Popolo di Dio che ciascun Vescovo diviene, per la porzione del Gregge a lui affidata, vicarius Christi, vicario di quel Gesù che nell’ultima cena si è chinato a lavare i piedi degli apostoli (cfr. Giovanni 13,1-15)”. Lo stile sinodale ecclesiale rappresenta per noi la sfida decisiva: esso deve essere attento al primato delle persone sulle strutture, alla promozione dell’incontro e del confronto tra le generazioni, all’accoglienza e valorizzazione delle diversità, alla corresponsabilità di tutti i soggetti, alla capacità di tagliare i rami secchi e ciò che non serve all’evangelizzazione, al coraggio di ‘osare con libertà’. Anche qui vi invito a domandarvi: Quanto spazio reale hanno i laici nella progettazione e realizzazione delle attività pastorali? C’è vera corresponsabilità? Quanto si è capaci di lavorare insieme negli organismi di partecipazione, in diocesi, nelle foranie, nelle Unità/Comunità pastorali e nelle parrocchie? I Consigli pastorali esistono e funzionano o sono solo sulla ‘carta’?
La terza priorità è data dal discernimento, categoria chiave che guida e guiderà il cammino ecclesiale dei prossimi anni. È da un po’ di tempo che papa Francesco, nelle catechesi del mercoledì si sofferma sul discernimento. Tema particolarmente caro a lui che si è formato alla scuola di sant’Ignazio. “Discernere è un atto importante che riguarda tutti, perché le scelte sono parti essenziali della vita” (Catechesi del 31 agosto 2022). In fondo, ogni azione della vita è frutto di una scelta. Viene così spontaneo chiederci: come integrare i vari aspetti della propria esistenza? Come giungere a una sintesi del proprio cammino spirituale, in modo che si possa leggere la propria vita come storia di salvezza e come risposta alla volontà di Dio? Di fronte a queste domande e ad altre, si avverta le necessità di attingere alla Scrittura e alla Tradizione della Chiesa, per poter operare nella libertà, scelte personali e concrete, che siano risposte alla chiamata di Dio. Entrare in questo cammino significa immettersi in un processo di discernimento spirituale, cioè di discernimento vissuto nello Spirito. Cammino non sempre facile, ma indispensabile per la vita e per la nostra felicità. Dio ci ha creati liberi, non si impone mai. Per questo discernere è impegnativo e faticoso. Il discernimento si inserisce all’interno del progetto di Dio per la Chiesa e per il mondo, ma si rivolge alle scelte personali e concrete della vita, non in modo generico ma per quello che è bene per me, qui e ora, a favore del bene universale e della gloria di Dio.
Un primo elemento costitutivo del discernimento è la preghiera, relazione e incontro con il Signore. La preghiera permette di entrare in relazione vera e profonda con Dio, attraverso il suo Figlio, consentendo di rivolgersi a lui con semplicità, familiarità e confidenza. Il segreto della vita dei santi sta proprio nella familiarità che avevano con Dio. Nella spontaneità della preghiera vinceremo ogni paura e dubbio, riconoscendo che la sua volontà è per il nostro bene, per farci star bene. Ma perché il discernimento sia vero, è necessario conoscere se stessi. Spesso si è confusi e distratti dalle tante cose che ci girano attorno. Discernere è faticoso perché non ci si conosce abbastanza e non si sa cosa veramente si desidera. Talvolta fa paura entrare nel profondo del proprio io, impedendo così di comprendere la volontà del Signore. Un altro ingrediente del discernimento, ce lo ha ricordato papa Francesco nell’ultima catechesi di mercoledì scorso, è il desiderio. Il discernimento è una forma di ricerca che nasce sempre da qualcosa che manca. Il desiderio è una nostalgia di pienezza che non trova mai pieno esaudimento, segno della presenza di Dio in noi. Desiderio traduce il latino de-sidus, letteralmente ‘mancanza della stella. Il desiderio è una mancanza del punto di riferimento che orienta il cammino della vita; non voglia di un momento ma luce che orienta il cammino (cfr. Catechesi 12 ottobre 2022).
Nel discorso per i 50 anni del Sinodo, papa Francesco ci ricordava che “una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare è più che sentire”. La Liturgia Eucaristica che stiamo vivendo, ci aiuta a vivere con intensità l’ascolto della Parola di Dio. In questa XXIX domenica del T.O., con la parabola del giudice disonesto, ritorna con forza il tema della fede e della preghiera fiduciosa e costante al Padre. “Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai” (Luca 18,1). Una preghiera ostinata e perseverante tanto da essere importuna; una preghiera così può nascere solamente dalla fede forte e incrollabile. Ma per comprendere bene questa parabola e per capire come possa esserci utile, è necessario partire dall’ultimo versetto del Vangelo di oggi, dalla domanda tagliente e inquietante di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Luca 18,8). Non è una domanda retorica perché è inquietante sia per Gesù che per ciascuno di noi: è possibile perdere la fede. Lo vediamo in tante persone che l’hanno smarrita abbandonando il rapporto con Dio e con la comunità. La domanda di Gesù si colloca nel contesto della venuta di Gesù, meglio delle sue venute. C’è la sua venuta nella carne alla nascita, l’ultima, quando verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, come recitiamo nel credo e la venuta intermedia. È una venuta costante data dalle visite che il Signore fa nella vita di ogni persona. Quante volte Gesù ci visita e viene da noi: ci visita nelle situazioni particolari e difficili della vita, in alcuni momenti quando la volontà di Dio bussa alla porta del nostro cuore, quando qualche persona ci chiede ascolto e aiuto, quando …, e noi come rispondiamo? Rispondiamo con fede, fidandoci di lui, percependo la sua presenza viva e operante, aprendo il nostro cuore ad una preghiera fiduciosa, nella certezza che l’amore di Dio ci avvolge e ci abbraccia, oppure giriamo le spalle cercando qualcos’altro? C’è una lotta da portare avanti ogni giorno, ma Dio è nostro alleato, la fede in lui è la nostra forza, e la preghiera è l’espressione della nostra fede. Per Gesù la preghiera è l’altra faccia della medaglia della fede.
Alla luce della domanda di Gesù, ci riesce più facile comprendere il comportamento della vedova che chiede giustizia e del giudice infedele che non vuole fargli giustizia, ma vinto dalla perseveranza e insistenza della vedova decide di esaudirla. Allora Gesù, con autorevolezza e con alcune domande conferma la fede dei credenti in lui, rassicurando gli ascoltatori sulla necessità della perseveranza nella preghiera. Anche san Paolo, nella seconda Lettura, rivolge un appello accorato al suo discepolo Timoteo: “Rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente” (2 Timoteo 3,14) e il libro dell’Esodo narra della perseveranza nella preghiera di Mosè con le braccia elevate al cielo che intercede per Israele (cfr. 17,11). Risulta così ancora più forte l’invito iniziale di Gesù sulla necessità di pregare e di pregare sempre. Quante volte anche noi ci interroghiamo sul significato della preghiera, se vale la pena pregare. Viviamo in un in una cultura dove il benessere e la scienza ci fanno credere che noi siamo capaci di tutto e che non c’è più bisogno di chiedere al Signore. Ci sono poi le tante cose da fare, la mancanza di tempo, la velocità della vita quotidiana, le distrazioni e l’aridità spirituale. Perché pregare? La preghiera cristiana si accende e nasce dall’ascolto della voce del Signore che ci fa dire, come Samuele: “Parla Signore, perché il tuo servo ti ascolta” 1Samuele 3,10). Dio ascolta il nostro grido e le nostre preghiere e ci chiede, di fronte alle sofferenze e alla difficoltà della vita di non mollare tutto, nella convinzione di non essere ascoltati, ma di insistere perché Dio non può mai abdicare ad essere Padre misericordioso, che ci ama e non ci abbandona mai. Questa è l’essenza del nostro Dio, che si è rivelato nel suo Figlio Gesù. Una preghiera alimentata da una fede forte e che non si scoraggia, da una fede che ci impedisce di chiuderci in noi stessi e nel nostro egoismo, proteggendoci dall’differenza verso gli altri, considerati solo ‘un problema’ e non un dono. La preghiera può diventare il rimanere in comunione con Dio, un’invocazione del suo amore, una manifestazione di lode e di adorazione e una forza per amare e servire i fratelli.
Gesù amava porre domande, molto più che dare risposte. E la maggior quantità di domande da lui poste, rispetto a quelle ricevute, stando a quanto ci riferiscono i vangeli, ne è una chiara testimonianza. La qualità di una persona non si valuta dalle risposte ma dalle domande che sa formulare. Diceva Oscar Wilde che ‘a dare risposte sono capaci tutti, ma a porre le vere domande ci vuole un genio’. Noi, spesso, siamo preoccupati di come incontrare il Signore, di come vivere la nostra fede. Accogliamo il metodo e lo stile di Gesù e fermiamoci in ascolto delle domande che Dio ci pone. E prima di cercare le risposte, fermiamoci a vivere bene le domande del vangelo. Così permetteremo al Signore di entrare dentro di noi. Scrive Ermes Ronchi: “Viviamo bene le domande di Gesù, che sono parola di Dio in forma di cammino. Aprono porta, tracciano sentieri nel cuore. Le risposte definiscono, le domande suggeriscono. Le definizioni chiudono, gli interrogativi invitano oltre. Le domande sono giovani, come un mattino perenne. Gesù educa alla fede attraverso domande, ancor più che attraverso parole assertive. … La domanda è la comunicazione non violenta, che non mette a tacere l’altro, ma rilancia il dialogo, coinvolge l’interlocutore e al tempo steso lo lascia libero. Gesù stesso è una domanda. La sua vita e la sua morte ci interpellano sul senso ultimo delle cose, ci interrogano su ciò che fa felice la vita, E la risposta è ancora lui” (Le nude domande del Vangelo, pp. 13-14).
In questo tempo ho pensato molto al cammino sinodale della nostra Chiesa di Concordia-Pordenone. Ora voi delegati sinodali siete chiamati a vivere, a nome di tutta la chiesa diocesana, la seconda fase dell’Assemblea sinodale. Lo Strumento di Lavoro (alla fine della celebrazione vi consegnerò un estratto, in attesa della definitiva approvazione e pubblicazione), frutto dell’ascolto capillare e attento di molte persone, vi guiderà nel compito che vi è chiesto: discernere quello che lo Spirito Santo suggerisce alla nostra Chiesa, tracciare il cammino per il futuro, traducendolo in scelte pastorali, meglio poche scelte che siano fondative e necessarie, per ridire e annunciare nell’oggi la vita buona del Vangelo. Appena sarà stampato lo Strumento di Lavoro, verrà consegnato anche alle nostre comunità parrocchiali per sostenere il cammino pastorale dell’anno 2022-2023. Diamo spazio al confronto e alla riflessione negli incontri dei consigli pastorali parrocchiali o di unità pastorale, negli incontri con gli adulti, con i catechisti e con i giovani. Lasciamoci provocare dalle domande Gesù ci pone e anche quelle che il mondo ci pone. Così diventeremo una Chiesa che sa ascoltare, offrire amore e prossimità e donare speranza.
Carissime e carissimi tutti, iniziamo così, con animo grato e lieto, e un po’ trepidante, la tappa del Cammino sinodale diocesano che ci accompagnerà fino alla fine dell’anno 2023. È il cammino pastorale di tutta la nostra Chiesa diocesana. Se vogliamo rinnovare la nostra Chiesa e le nostre comunità cristiane, rimettiamo al centro della vita personale e della pastorale il Signore Gesù, vivente e risorto. Diamo tempo alla preghiera personale e comunitaria, all’ascolto della Parola, all’incontro nell’Eucaristia. Troviamo ad ogni costo questo tempo e mettiamolo agli inizi delle nostre agende pastorali. Rafforziamo la comunione e la fraternità vera tra noi presbiteri, diaconi, consacrati/e e fedeli laici: sarà la carta vincente della pastorale capace di aprire tante porte e il cuore delle persone. Portiamo l’amore di Gesù nella vita della gente; molti sono sfiduciati, preoccupati e delusi, talvolta anche dalla Chiesa. Chiniamoci sui più bisognosi e sui poveri, che ci sono e che, date le circostanze del tempo presente, ci saranno ancora di più. Chiediamo al Signore di consolidare la nostra fede, speranza e carità. Anche se il momento attuale è difficilissimo e carico di incognite e preoccupazioni per l’umanità tutta, anche se è prevalente nelle nostre terre una ‘desertificazione spirituale’, ricordiamo, come ha scritto papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, che è proprio a partire dalle difficoltà, dalle preoccupazioni e dal vuoto interiore che possiamo riscoprire la gioia di credere. Sono molti anche ai nostri giorni i segni della sete di Dio, del senso ultimo della vita, dell’amore e della pace. Per questo non lasciamoci rubare la speranza, per diventare nella società profeti di speranza! (cfr. n. 86).
+ Giuseppe Pellegrini
Vescovo