Meditazione Ritiro spirituale del clero – Santuario diocesano Madonna del Monte – Marsure 4 maggio 2017  

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Meditazione Ritiro spirituale del clero

Santuario diocesano Madonna del Monte – Marsure 4 maggio 2017

 

Coltivare la fraternità sacerdotale

 

  1. Introduzione

Nei giorni della formazione a Bibione, tra le tante cose che ci siamo detti, sono rimasto colpito e mi ha fatto riflettere parecchio un’espressione di don Enrico: “Lì dove non si coltiva la fraternità sacerdotale, non crescere nemmeno la spiritualità sacerdotale”. Già nella Messa del Crisma del 2012 avevo richiamato l’importanza e la necessità della fraternità presbiterale, come dimensione centrale del nostro servizio ministeriale. Siamo tutti consapevoli, vi dicevo, che alla base della comunione della Chiesa, per attuare un autentico stile di corresponsabilità tra preti e laici e anche per alimentare e sostenere la nostra spiritualità, è necessario vivere la fraternità tra di noi. Il documento conciliare Presbiterorum Ordinis, al n. 8 ci ricorda che “tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del Presbiterato, mediante l’ordinazione, sono intimamente uniti tra di loro con la fraternità sacerdotale”. È una fraternità fatta non solo di azione e attività ma affettiva, reale e concreta. Gesù, prima di inviare gli apostoli, li chiamò a vivere una autentica fraternità, dicendo loro: “Venite e vedrete. Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con Lui” (Giovanni 1,39).

 

  1. Il discorso di Paolo ai presbiteri di Efeso

Atti 20,17-38

Come testo biblico per la meditazione ho scelto il discorso di Paolo ai presbiteri di Mileto che è un’icona di riferimento molto eloquente. Le sollecitazioni che ne emergono, pur non soffermandosi specificatamente sulla fraternità presbiterale, ci offrono indicazioni sul nostro ministero, sostenendo concretamente la nostra vita di presbiteri e la fraternità che siamo chiamati a vivere, proprio perché sono parole rivolte ad un collegio di presbiteri. Solo in uno stile di comunione presbiterale è possibile offrire un annuncio efficace e una testimonianza credibile al Vangelo. Nel suo testamento ai presbiteri, l’apostolo delinea una serie di atteggiamenti che gli anziani sono invitati a fare propri. I presbiteri sono chiamati a vivere il ministero come un servizio reso al Signore, con uno stile di vita che esprima in modo trasparente la persona del Signore Gesù. In questo servizio prezioso che i presbiteri svolgono per la crescita della comunità, sono sollecitati da Paolo a donare uno spazio privilegiato al ministero della Parola con una dedizione del tutto speciale. L’apostolo ricorda pure che una testimonianza coerente di vita manifesta la potenza trasformante di questo annuncio. Infine i presbiteri vengono affidati alla Parola, proprio perché prima di esserne i testimoni sono essi stessi sostenuti dalla sua grazia. Da questo ascolto diligente e attento della Parola scaturiscono poi gli atteggiamenti più concreti nella gestione dei beni e nelle scelte che esprimono la solidarietà con chi è bisognoso, andando così ad attualizzare l’espressione secondo cui: “Si è più beati nel dare che nel ricevere” (v.35).  Vivendo così, potremo essere e diventare un autentico presbiterio.

 

Lectio e meditatio Atti 20,17-38

17Da Mileto mandò a chiamare a Èfeso gli anziani della Chiesa. 18Quando essi giunsero presso di lui, disse loro: “Voi sapete come mi sono comportato con voi per tutto questo tempo, fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia: 19ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei; 20non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, 21testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù. 22Ed ecco, dunque, costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà. 23So soltanto che lo Spirito Santo, di città in città, mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. 24Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di dare testimonianza al vangelo della grazia di Dio.

25E ora, ecco, io so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunciando il Regno. 26Per questo attesto solennemente oggi, davanti a voi, che io sono innocente del sangue di tutti, 27perché non mi sono sottratto al dovere di annunciarvi tutta la volontà di Dio. 28Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio. 29Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; 30perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare i discepoli dietro di sé. 31Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato, tra le lacrime, di ammonire ciascuno di voi.

32E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha la potenza di edificare e di concedere l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati. 33Non ho desiderato né argento né oro né il vestito di nessuno. 34Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. 35In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!””.

36Dopo aver detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. 37Tutti scoppiarono in pianto e, gettandosi al collo di Paolo, lo baciavano, 38addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave.

Diversi studiosi considerano il discorso ai presbiteri di Efeso appartenente al genere letterario dei ‘testamenti’ o ‘discorsi di addio’, genere ben attestato nell’antichità. La scena ha un innegabile sapore di addio; Paolo, infatti, avverte la separazione imminente e definitiva, avendo anche la premonizione sul suo doloroso destino, anche se non parla, come aveva fatto Gesù, della propria morte. Certamente siamo in un clima di intimità, dove la preoccupazione di Paolo è di preparare i presbiteri ad affrontare i problemi che incontreranno. “Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci … e perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse” (v. 29-30). Proprio per questo Paolo convoca i presbiteri in quanto responsabili, guide e rappresentanti della comunità, ricordando loro il suo passato missionario e di primo evangelizzatore a Efeso. Bella e significativa questa scelta perché, richiamando alla loro mente il suo stile di annuncio, ricrea quel clima di entusiasmo e il calore delle relazioni della primissima comunità cristiana. Uno stile che non dovrà mai mancare nella vita dei presbiteri. “Non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case” (v.20). L’apostolo richiama e ricorda la sua consuetudine di vita con i cristiani della comunità. Egli è vissuto con loro, partecipando alla loro esistenza quotidiana e alle varie situazioni di vita. Questo è il suo atteggiamento pastorale che desidera sia sempre presente nei presbiteri. Stile di vita che viene così sintetizzato: “Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove” (v.19). La prima caratteristica à l’umiltà. Si tratta dell’umiltà d’animo, che spesso Paolo richiama nelle sue lettere, della disposizione di fondo che rende possibili le relazioni improntate alla mitezza, all’affabilità e alla misericordia, condizione fondamentale per una autentica carità pastorale del presbitero. Rischiamo anche noi, talvolta, di esercitare il ministero dell’autorità in maniera dispotica, sul modello del potere mondano. Sentiamo, così, forte il richiamo della 1 Pietro: “pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge” (5,2-3).

La seconda caratteristica dell’evangelizzazione di Paolo è data ‘dalle lacrime’, che appaiono nel testo ben due volte. Traspare qui l’angoscia e l’inquietudine dell’apostolo di fronte alla rinuncia di tanti cristiani, infedeli alla loro vocazione e che si espongono alla perdizione. La sua è una vita sofferta per il vangelo! L’ultima connotazione è data ‘dalle prove’. Trame e congiure, soprattutto da parte dei giudei, sono all’ordine del giorno. Anche Gesù ha sperimentato le prove e le tentazioni e sembra che siano una caratteristica dell’esistenza cristiana, in particolare del ministero apostolico, che possono portare alla defezione e all’abbandono. Per questo Paolo offre come esempio e testimonianza la propria fedeltà e perseveranza. L’apostolo non si è sottratto per nulla, trasmettendo il messaggio cristiano con dedizione assoluta, nelle diverse forme possibili, nei diversi luoghi e a tutti i destinatari.

Dal v. 25 Paolo dà alcune consegne ai presbiteri, ricordando loro la responsabilità che devono assumersi. Prima di richiamare la cura pastorale verso il gregge affidato, Paolo fa loro un ammonimento: “Vegliate su voi stessi” (v.28). I presbiteri devono guardarsi da una minaccia che incombe sulla loro vita: la trascuratezza nella cura pastorale e nel custodire la tradizione apostolica, ricordando loro che è lo Spirito Santo che li posti a custodire e pascere la Chiesa di Dio. La minaccia che si profila è grave; dall’esterno si introdurranno “lupi rapaci” (v.29) e dall’interno “falsi maestri” (v.30) che minacceranno l’autenticità, l’unità e la comunione della Chiesa. Questo comporta per i presbiteri l’impegno della vigilanza, nella prospettiva escatologica del ritorno di Cristo.

Pascere il gregge rimane il compito fondamentale del presbitero. L’attenzione dei presbiteri a se stessi e al gregge loro affidato sono strettamente congiunti perché c’è un legame profondo tra presbiteri e comunità: da una parte la comunità giunge alla salvezza attraverso la sollecitudine dei presbiteri; dall’altra i presbiteri salvano se stessi solo se avranno cura appassionata e instancabile per la comunità. Paolo usa l’espressione “Chiesa di Dio” (v. 28), frequente nelle sue lettere, proprio perché la Chiesa, erede della santa assemblea dell’AT, è fondata sul sangue di Cristo. Ora a Paolo non rimane che affidare i presbiteri “a Dio e alla parola della sua grazia” (v. 32). Mentre i presbiteri proclamano la parola di salvezza, sono essi stessi sostenuti e protetti dalla grazia divina che la Parola comunica. Sarà la potenza stessa della Parola e non le loro forze e capacità a far crescere la comunità e a portare a tutti la salvezza. Qui Paolo, come aveva fatto precedentemente, offre l’esemplarità del suo comportamento (v. 33-35), affermando che non ha mai sfruttato i beni terreni per il proprio vantaggio, “Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani” (v.34). L’annuncio del vangelo va fatto con gratuità e senza aggravio per la comunità, avendo cura dei poveri e dei deboli.

 

  1. Attualizzazioni

Sono molteplici e densi di significato gli elementi di riflessione e di meditazione che questo discorso di Paolo ci suggerisce, traducibili anche in atteggiamenti concreti e scelte operative, quali lo stile di vita del presbitero, le caratteristiche e le motivazioni del ministero, una particolare cura pastorale espressa sinteticamente con carità pastorale e la forma di vita da intensificare e valorizzare della comunione e fraternità tra noi preti, anche con forme nuove e adatte ai nostri tempi. Il modello pastorale di Paolo che emerge nel discorso di Mileto, può fornire anche a noi oggi, stile e modalità, fiducia e coraggio per l’esercizio del nostro servizio ministeriale alla Chiesa e alla comunità. Mi soffermo in particolare sullo stile di vita pastorale del presbitero, che conferisce spessore spirituale e autentica efficacia a tutta la nostra azione e attività, aiutandoci a non cadere nella trappola dell’attivismo che si rivela incapace di incidere profondamente nella vita delle persone e della comunità. Uno stile che coniughiamo nei due versanti indicati da Paolo al v. 28:

– Pastori della Chiesa di Dio

– Vegliate su voi stessi

° L’essere pastori della Chiesa di Dio, secondo Paolo, è caratterizzato da una intensa partecipazione alla vita e alle esperienze della comunità: tutti hanno potuto vedere di persona come lui vive, cosa fa, verificando la linearità e la regolarità del suo comportamento. Il prete non può ritirarsi in spazi individuali, sacrali, che lo isolino dal contesto e dalla vita concreta della comunità. Dobbiamo essere in grado di vincere la tentazione di isolarci in ambienti protetti, affettivamente caldi e sicuri. È necessaria una presenza intelligente, discreta e al contempo profondamente partecipe e solidale ai problemi e alle vicende che toccano quotidianamente le persone. Senza questo stile, le varie attività rischiano di apparire come un dovere che deriva dalla nostra professione e non come frutto della passione e gioia di annunciare e portare il vangelo di Gesù. Le ultime parole di Paolo ai presbiteri si concentrano sul disinteresse, sulla solidarietà e sulla cura dei poveri e bisognosi. Uno stile di vita essenziale e un distacco reale dai beni e dalla ricchezza, sono una condizione imprescindibile, ieri come oggi, per la credibilità dell’annuncio e la testimonianza del presbitero. Spesso, anche oggi, la religione viene associata a interessi palesi o occulti, per un arricchimento personale o per posizioni di privilegio.

Paolo, poi, parla di uno stile del ministero presbiterale che si connota come un servizio reso al Signore, caratterizzato da quella profonda umiltà che si esprime in mitezza, dalle lacrime che manifestano l’intensa passione per la vita della comunità e dalle prove che sono destinate a mettere in luce la solidarietà interiore. Il primo grande desiderio di ogni presbitero è proprio quello di essere fedele al Signore Gesù, conformandosi sempre di più a Lui, al suo modo di servire, di amare e di pensare. L’autenticità e la fecondità della vita del presbitero, non si misurano dal successo o dall’approvazione gratificante e non devono essere messe in crisi dalle fatiche e dalle incomprensioni. Il metro di giudizio sarà, invece, la gratuità di una vita donata interamente ai fratelli, mettendo a disposizione di tutti le proprie risorse di tempo e le proprie energie di mente e di cuore. Tale dedizione sarà la nostra salvezza e la strada che ci porta alla santità. Ce lo ricorda con chiarezza il Concilio Vaticano II: “I presbiteri sono ordinati alla perfezione della vita in forza delle stesse sacre azioni che svolgono quotidianamente, come anche di tutto il loro ministero, che esercitano in stretta unione con il vescovo e tra di loro. Ma la stessa santità dei presbiteri, a sua volta, contribuisce non poco al compimento efficace del loro ministero” (Presbiterorum Ordinis, 12).

Ricordo i due atteggiamenti che mi sembrano più significativi. La fedeltà al Signore richiede un esercizio del ministero caratterizzato da umiltà e mitezza, sul modello di Gesù “mite e umile di cuore” (Matteo 11,29). L’umiltà aiuta a riconoscere, ad accogliere e a valorizzare i doni degli altri, superando rivalità, gelosie ed esclusioni. Dello stile del presbitero deve far parte anche la passione pastorale. Le lacrime e le gioie di Paolo non erano motivate da facili entusiasmi o depressioni emotive, ma dalla sua intensa partecipazione alle vicende spirituali dei singoli e delle comunità affidate alla sua cura. Non si può restare insensibili o disinteressati di fronte alle difficoltà, sofferenze e problemi di tante persone. Questa passione pastorale va alimentata con una profonda preghiera e relazione personale con il Signore. Anche il presbitero, sull’esempio di Paolo, deve dare all’annuncio della Parola l’assoluta priorità. Vi invito a rimeditare, con attenzione il capitolo che papa Francesco dedica nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium all’omelia dal n. 135 al 159. “L’Omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo” (EG 135).

° Vegliate su voi stessi. È l’invito a non lasciarci fuorviare da lusinghe e proposte mondane, ad aver cura della propria vocazione sacerdotale, non trascurando di motivarla, irrobustirla e farla crescere. La cura di se stessi è fondamentale e deve venir prima di tutto il resto. Aver cura di sé, significa anche non far venir meno il tempo personale per l’incontro con il Signore e il tempo per la cura della vita comunitaria e fraterna con gli altri confratelli. Ecco perché credo necessario che come presbiterio riprendiamo con forza, in vista anche del funzionamento delle Unità Pastorali e della Visita pastorale che ci accingiamo a vivere, l’apertura a relazioni più fraterne tra noi presbiteri, con scelte concrete e operative di vita fraterna. Giovanni Paolo II, nel lontano 1990, in un discorso ai presbiteri, ricordava che quando Cristo istituì il sacerdozio ministeriale, gli diede una forma comunitaria, affidando al gruppo dei Dodici l’ufficio pastorale nella Chiesa, sotto la guida di Pietro. Il ministero sacerdotale, diceva, è un’opera collettiva alla quale prendono parte tutti i sacerdoti. Coloro che ricevono l’Ordine sacro, sono destinati a lavorate insieme e devono dunque esser formati allo spirito di collaborazione. E papa Francesco nell’Assemblea della CEI del 2016, ricordava ai vescovi che “per un sacerdote è vitale ritrovarsi nel cenacolo del presbiterio. Questa esperienza – quando non è vissuta in maniera occasionale, né in forza di una collaborazione strumentale – libera dai narcisismi e dalle gelosie clericali; fa crescere la stima, il sostegno e la benevolenza reciproca; favorisce una comunione non solo sacramentale o giuridica, ma fraterna e concreta. Nel camminare insieme di presbiteri, diversi per età e sensibilità, si spande un profumo di profezia che stupisce e affascina. La comunione è davvero uno dei nomi della Misericordia”.

È idea sempre più condivisa che il senso di solitudine e frustrazione che mina l’identità del prete, non sia tanto di carattere familiare o sociale quanto di tipo pastorale-ministeriale. A incidere negativamente è la mancanza di relazioni fraterne e di sostegno all’interno del mondo ecclesiale, in primis tra i confratelli. Pertanto, è indispensabile poter condividere fino in fondo con altri confratelli le proprie preoccupazione e fatiche pastorali. Nell’Assemblea della CEI del 2016, il relatore mons. Gualtiero Sigismondi diceva: “L’insidia più sottile per un prete non è la solitudine ma l’isolamento: ciò che mina la su stabilità psicoaffettiva non è il fatto che, chiusa la porta della canonica, non ha più nessuno con lui, quanto piuttosto il clima di ‘impietosa freddezza’ che talora respira fra i suoi confratelli. Questa è una delle cause che induce i ministri ordinati a lasciarsi fagocitare dalla mondanità virtuale, che si apre e si chiude con un semplice clik. In questo modo si rinuncia a tessere la rete della fraternità con vincoli di sincera amicizia, quella che riscalda la casa di Betania”. La necessità di una relazione schietta, cordiale e fraterna con i confratelli e con laici, non risiede nel bisogno personale ma si fonda sul battesimo e sul sacramento dell’ordine. Anzi, fin dalla creazione l’essere umano è strutturalmente comunitario e dialogico: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Genesi 2,18). Pensati e creati a immagine di Dio (cfr. Genesi 1,27) che è Trinità, relazione delle persone divine che si amano e reciprocamente si donano, anche noi siamo chiamati a vivere insieme, non da soli, e sempre in comunità di relazioni. Gesù stesso, nella scena culminante della sua vita, durante l’Ultima Cena, momento in cui istituisce l’Eucaristia e il Sacerdozio, ha pregato il Padre “perché siano una cosa sola, come noi” (Giovanni 17,11). L’unità tra i discepoli del Signore e anche tra i presbiteri, trova il significato profondo nell’unità tra Gesù e il Padre. Per noi presbiteri, essere una cosa sola con Cristo e con i confratelli, è la misura della nostra stessa vocazione. È significativo che il sacerdozio e l’eucaristia siano stati istituti nello stesso momento. Il sacramento dell’unità, della comunione che rende presente Gesù è consegnato ai sacerdoti perché, come Lui, consacrino e vivano l’unione intima con il Padre e fra di loro.

Siamo tutti convinti, carissimi confratelli, che la fraternità sacerdotale scaturisce dall’Eucaristia, che noi quotidianamente celebriamo e offriamo al Padre, come segno di unità, vincolo di carità e sorgente dell’amore. Una fraternità tra di noi che diventa esperienza di vita e testimonianza d’amore per le nostre comunità. Ci ha detto Gesù: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13,35). Possiamo definirla la regola d’oro per noi preti: conoscerci, volerci bene, stimarci gli uni gli altri, farci presenti nei momenti di bisogno, di sofferenza, di crisi… in una parola volerci bene tra noi preti è il fondamento della vera fraternità. Leggiamo nella Lumen Gentium: “In virtù della comunità di ordinazione e missione tutti i sacerdoti sono fra loro legati da un’intima fraternità, che deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità” (n.28). E la Pastores Dabo Vobis, al n. 74 ci ricorda: “La fisionomia del presbiterio è, dunque, quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell’Ordine: una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti; una grazia che si espande, penetra e si rivela e si concretizza nelle più varie forme di aiuto reciproco, non solo quelle spirituali ma anche quelle materiali. La fraternità presbiterale non esclude nessuno, ma può e deve avere le sue preferenze: sono quelle evangeliche, riservate a chi ha più grande bisogno di aiuto o di incoraggiamento”. Questi testi e molti altri, comprese le ultime assemblee della CEI dedicate ai presbiteri, ci aiutano cogliere la dimensione della fraternità come un elemento essenziale alla vita e al ministero dei presbiteri. Il principio di appartenenza al presbiterio come definizione dell’identità del prete è dottrina assodata, anche se fa ancora fatica ad essere accolto. Siamo tutti invitati ad assumere gli ampi orizzonti di una ministerialità che non si chiuda nelle piccole prospettive personali, preoccupate talvolta di difendere propri spazi di autonomia, ma sappia cogliere l’opportunità della vita fraterna come una grazia che ci è offerta per poter realizzare pienamente la nostra umanità, il nostro essere preti per la comunità. Ecco perché siamo invitati a fare nostri quegli atteggiamenti che san Paolo richiedeva ai presbiteri di Mileto, a viverli e metterli in pratica concretamente nel presbiterio, per poter così edificare e costruire la comunità cristiana. Non è possibile essere servi della comunione nella comunità cristiana senza aver sperimentato la comunione all’interno del presbiterio. La spiritualità del prete diocesano assume così i tratti di un cammino di santità che conduce ad essere uomini di comunione, costruttori di comunità.

In questo contesto emerge più chiaramente come non sia più possibile vivere il ministero da soli, ma all’interno di una concreta comunione ecclesiale e presbiterale. Desidero accogliere e mettere in atto, proprio in merito alla fraternità presbiterale, il primo dei quattro principi relazionali dell’Evangelii Gaudium (n. 222-225): il tempo è superiore allo spazio. “Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci” (EG 223). Avviare processi per noi, può significare compiere alcune scelte e pratiche quotidiane ispirate alla concretezza, mettendo in atto uno stile di vita fraterna fra i confratelli vicini, per es. nell’Unità Pastorale, e trovare senza scuse o paure, momenti frequenti di preghiera comune, di confronto e di pasti insieme. Può significare perdere un po’ di tempo per visitare un confratello che sta vivendo un momento difficile per malattia, sofferenza o crisi! Può anche significare vincere la ritrosia degli incontri formativi in diocesi, delle settimane residenziali, degli incontri di congrega, accompagnati dal pasto comune e dalla meditazione sulla Parola. Può anche voler dire smetterla di parlare male gli uni degli altri, delle critiche eccessive, dei pettegolezzi e ‘godere’ del bene degli altri, delle loro iniziative che funzionano … Tutto questo ci chiede di saper gestire meglio il nostro tempo, sapendoci dare delle priorità. Tutti siamo sommersi da molte attività, proprio perché ci sono stati dati tanti numerosi incarichi. La vita spirituale, la formazione e la vita fraterna, hanno di loro natura la priorità su tutte le altre attività.

Ribadisco quanto avevo detto anni fa, e ora lo faccio con più convinzione e determinazione, proprio nell’ottica di avviare processi. Vedo sempre più necessaria in diocesi la forma di vita comune e fraterna tra presbiteri (magari anche con diaconi e laici). Alcune esperienze in diocesi ci sono, ma vanno intensificate e potenziate. Sono consapevole che la vita comune tra i preti non si possa imporre, auspico però il sorgere di altre fraternità presbiterali e sono lieto e contento che, liberamente, alcuni preti si facciano avanti nel chiedermi di vivere insieme, mettendosi poi al servizio di più parrocchie vicine. Lo so che questo comporterà alcune scelte faticose, come l’individuazione delle parrocchie vicine, la maturazione delle comunità parrocchiali e il conseguente avvicendamento di alcuni preti. È una strada da percorrere. Non tutto deve essere fatto subito, ma sento che dobbiamo intraprendere questo cammino nell’ottica di dare inizio ad un processo, con la certezza della presenza e dell’assistenza dello Spirito Santo. Ci conforti e ci protegga Maria che qui veneriamo come Madonna del Monte.

Marsure
04/05/2017
33081 Marsure, Friuli Venezia Giulia Italia