Omelia celebrazione diocesana per il 40° del Terremoto – Vito d’Asio – 6 maggio 2016

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Omelia celebrazione diocesana per il 40° del Terremoto

Vito d’Asio – 6 maggio 2016

            In quella tragica sera del 6 maggio 1976, 40 anni fa’, il passaggio dell’Orcolàt portò in buona parte del Friuli e in alcune comunità della nostra diocesi, distruzione e morte. Siamo riuniti, questa sera, comunità cristiana e comunità civile, per fare memoria di quel tragico evento, per ricordare nella preghiera le 989 vittime (di cui 35 nella nostra diocesi), ma anche per riconoscere quella grande gara di generosità e di solidarietà di volontari, forze dell’ordine, militari, semplici cittadini e istituzioni, che fin dalla notte, continuò ininterrottamente per mesi. A detta di molti, fu un tempo memorabile e indimenticabile, per il grande dolore delle persone affrontato con dignità e per la grande generosità dei soccorsi. Desidero ricordare anche i tanti sacerdoti presenti nei luoghi più colpiti (alcuni sono qui),  che rimasero accanto alla loro gente. Ma è doveroso ricordare che l’aiuto più grande venne dalle mani e dal cuore dei terremotati stessi che, pur con le lacrime agli occhi, operarono fin da subito per la ricostruzione delle loro case e dei loro paesi con una scelta condivisa da tutti: prima le fabbriche e le infrastrutture, poi le case e infine le Chiese.

Alla distruzione materiale, inizialmente e poi più fortemente con la scossa del 15 settembre, molte persone stavano perdendo la speranza di poter ricostruire quello che si era perduto. La fraternità e la comunione che il sisma hanno provocato tra le persone, anche di diversa provenienza politica e la grande solidarietà di tutta l’Italia e di altri paesi hanno messo le fondamenta per la rinascita del Friuli. Ecco perché, a distanza di 40 anni, possiamo rileggere l’esperienza del terremoto come uno dei momenti di ‘compimento’ della storia. La purificazione della storia con il suo ultimo giudizio e la dissoluzione dell’antico mondo sono necessari per creare lo spazio per una nuova creazione e per una nuova umanità. È questo il messaggio del libro dell’Apocalisse e in particolare del capitolo 21 che la liturgia della Parola ci ha proposto. “Ecco, io faccio nove tutte le cose”. (21,5). Il momento decisivo di tutta la storia umana si realizza nel compimento del mistero di Dio. Al posto dell’antico mondo subentra una terra completamente nuova che prende la forma della Gerusalemme celeste, dove non c’è più spazio per il dolore, il lutto e la sofferenza. L’antico stato esistenziale dell’umanità è definitivamente superato. La nuova Gerusalemme, pur circondata da mura, è una città dalle porte aperte. Esse sono un invito ad entrare in città per incontrare il Cristo risorto luce del mondo che illumina l’umanità intera. Ma il Signore non attente la fine dei tempi per donarci la gioia, perché invita tutti ad impegnarci per la realizzazione di un mondo nuovo. Sono convinto che molti, negli anni della ricostruzione, si sono sentiti partecipi alla realizzazione di una nuova creazione.

Gesù, nel Vangelo, ci invita ad essere come “un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia” (Matteo 7,24). Al di fuori dell’immagine bella e suggestiva, soprattutto in questa celebrazione, la parabola ci ricorda le condizioni necessarie perché la vita cristiana possa risultare come una costruzione solida, che resiste alle prove del maligno e alle seduzioni e tentazioni di tante proposte mondane.  La roccia che da stabilità alla nostra casa è il Signore, la parola di Dio. La prima condizione sta proprio nell’appoggiarci a Lui, a Cristo, la roccia, l’unico capace di rendere forte e incrollabile la fede dei discepoli. È nella forza di Dio che l’uomo trova la sua consistenza. L’altra condizione consiste nelle necessità di prenderci un impegno concreto, passando così dalle parole ai fatti. “Non chiunque dice: ‘Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli” (7,21). C’è sempre il rischio di ascoltare la Parola, magari anche insieme con gli altri, e poi chiuderci in noi stessi o nel nostro gruppetto, senza mai sporcarsi le mani per gli altri.

Penso che sia necessario, dopo 40 anni, chiederci quanto è rimasto dello spirito iniziale della ricostruzione, quanto abbiamo fatto tesoro dei valori che ci hanno sostenuto in quel tragico evento? Rileggendo articoli e cronache del tempo, molti parlavano e parlano di ‘modello Friuli da esportare’. Due, in particolare, sono gli aspetti da tener presenti anche oggi. Lo spirito di fraternità, di comunità e di unità delle persone e delle diverse istituzioni, che in quei tragici giorni hanno avuto la forza e il coraggio di progettare e lavorare insieme, senza guardare alle diversità politiche e partitiche, ma solo cercando il bene comune, anche con la reale valorizzazione delle autonomie locali.  L’altro aspetto è la pagina di solidarietà, meglio il grande libro della generosità scritto dalle mani di tantissime persone e istituzioni che hanno fatto riscoprire le capacità più belle che sono in fondo al cuore di ogni persona.  In questi anni è stato ricostruito tutto: fabbriche, scuole, case e chiese, guidati dai valori della fraternità, della solidarietà e spesso anche dall’amore verso il nostro territorio e verso gli altri. Quanto quei valori sono presenti anche oggi? Abbiamo veramente a cuore il bene comune delle nostre città, mettendo da parte le contrapposizioni ideologiche che hanno la radice nell’insaziabile egoismo e nell’individualismo? Quanto è presente lo spirito di fraternità, di solidarietà e di attenzione verso il più povero, che ha guidato la ricostruzione?  Talvolta sembra che il benessere e la ricchezza che dal terremoto in poi sono presenti nella nostra regione e nei nostri paesi, ci abbia anestetizzati nei confronti degli altri e dei più bisognosi, chiudendoci in un egoismo senza ritorno.

La crisi esistenziale e di valori, sommata alla crisi economica, che stiamo oggi vivendo, possano diventare una occasione per realizzare, sulla scorta dei valori e dello stile di vita che hanno animato gli uomini e le donne di quarant’anni fa, una nuova ricostruzione del nostro territorio e dei nostri paesi. L’Apocalisse ci invita a farlo con una nuova modalità: “E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (21,4). A noi il compito, non facile, ma entusiasmante, di collaborare alla costruzione di una nuova umanità, la civiltà dell’amore. Faremo ciò se saremo capaci di essere più rispettosi dell’ambiente, più attenti alle persone e alle loro esigenze e necessità e accoglienti di quanti raggiungono anche oggi le nostre terre, con la consapevolezza, come ci ricorda il salmo 127,1 che “se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori”.

Con la bellissima espressione del vescovo Battisti: Vecje anime dal Friûl, no stà murî, riprendiamo, con speranza e convinzione, il cammino che ci sta davanti.

 

                                                                                   + Giuseppe Pellegrini

                                                                                               vescovo

Vito d'Asio
06/05/2016
Vito d'Asio, Friuli Venezia Giulia Italia