Omelia nella “Solennità di tutti i Santi” Pordenone, 1 novembre 2013

condividi su

Omelia nella “Solennità di tutti i Santi”

Pordenone, 1 novembre 2013

La visione che ci viene proposta dal libro dell’Apocalisse ci porta a contemplare il cielo, ad alzare il nostro sguardo verso l’alto, là dove sono giunti i nostri fratelli e le nostre sorelle che, precedendoci nel segno della fede, hanno realizzato in modo pieno il progetto di Dio, incontrandosi in maniera definitiva con Lui. C’è però un pericolo nel fermarci a contemplare il cielo: pensare che la vita cristiana, o – come ci ricorda la festa di oggi – che la santità sia una prerogativa di pochi fortunati, di coloro che vivono disincarnati dalla vita quotidiana, oppure sia per persone eccezionali, fuori dalla portata di ciascuno di noi, perché noi siamo dei poveracci, non baciati dalla fortuna … e per di più immersi nelle contraddizioni del tempo presente. Altro che cielo e paradiso!
La liturgia celeste non vuole distoglierci dal presente o portarci fuori, illudendoci, dalla vita reale, ma vuole riempire il nostro cuore di autentica consolazione, facendoci intravedere la meta finale del cammino della vita: stare in piedi di fronte al trono e all’Agnello, di fonte al Cristo risorto, avvolti in bianche vesti e immersi nella serenità, nella pace e nell’amore di Dio. L’immagine del trono e dell’Agnello rappresentata nell’Apocalisse, ci è cara e accompagna il nostro cammino in quest’anno pastorale. Ancora una volta siamo invitati a oltrepassare la porta del cielo che ci permette di osservare e contemplare la liturgia del cielo, non per fuggire dalla vita presente e dalla realtà quotidiana, ma per vedere da una prospettiva diversa, quasi si trattasse di una lente d’ingrandimento necessaria per decifrare e interpretare, il nostro mondo e la nostra stessa vita. L’apocalisse, infatti, ci parla del futuro per aiutarci a comprendere e vivere il presente; la liturgia del cielo comunica il senso della storia e ci dà la chiave per riconoscere, anche attraverso la liturgia che noi celebriamo sulla terra, la nostra stessa vita.
Desidero soffermarmi con voi sull’immagine centrale del testo dell’Apocalisse di oggi: una moltitudine ritta davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolta di vesti bianche. Nella contemplazione dell’Agnello siamo invitati a comprendere come la persona di Gesù interagisce nella storia dell’umanità, portandola a compimento. E’ risorto, ma nello stesso tempo sgozzato. Ecco allora il significato anche per noi oggi. Le grandi opere che il Signore ha compiuto per l’umanità sono scaturite dalla sua morte in croce e potranno ancora essere realizzare da persone che avranno il coraggio di donarsi e di immolarsi per gli altri, come ha fatto Gesù. Ma chi sono queste persone? Perché cantano? “Una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” (7,9). Il vangelo poi li chiama beati, fortunati, felici! Ma è poi così vero che ci sono tante persone felici? Esistono l’uomo, la donna, il giovane, l’anziano veramente felici? Sentiamo tutti il peso di queste domande e, talvolta, anche noi pensiamo che la felicità, quella vera, che la gioia siano un’illusione, possibili solo nell’al di là: come infatti immaginare che uomini e donne di nazioni, culture e lingue diverse possano essere felici di fronte a tante devastazioni, conflitti, guerre? Come immaginare oggi la felicità, in una situazione sociale ed economica di crisi e di difficoltà reale?
Ci sostiene e ci incoraggia la risposta della liturgia della parola: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1 Giovanni, 3,1). Come figli preziosi e amati da Dio, partecipiamo anche tutti noi alla santità di Dio. Con Lui, anche noi siamo santi! Sappiamo bene che la santità è prerogativa di Dio, è la proprietà più specifica. Nell’inno del Gloria cantiamo: “Perché tu solo il santo …”, ma Dio non l’ha tenuta per sé, l’ha voluta condividere, condividendo con noi la su santità. Ciò che ci rende santi, pertanto, è il dono di Dio, il suo amore, la sua luce che raggiunge ogni persona, in qualunque condizioni si trovi. A noi però il Signore lascia la piena libertà di accogliere, o non accogliere i suoi doni, di essere disponibili alla sua grazia, ai suoi doni e farli così entrare nella nostra vita. La santità non è opera nostra. La nostra opera consiste però nel permettere che l’azione di Dio, la sua iniziativa entri nella nostra vita. Così come il vangelo delle Beatitudini non ci chiede di accettare la povertà, le lacrime o le persecuzioni, ma di accogliere l’iniziativa di Dio che viene ad arricchire la nostra povertà, a sostenerci nel momento della sofferenza e della prova, a riempire il nostro cuore di consolazione e di pace. Ciò che di solito rende triste e infelice la vita di una persona (pensiamo alla povertà, alla sofferenza, alle malattie e alla morte), diventa inaspettatamente motivo di consolazione, di beatitudine e di felicità perché Dio si rende vicino a ciascuno di noi, entra nelle situazioni più disperate della vita, facendosi carico delle sofferenze e trasformandoci interiormente. La vera gioia che il Signore ci offre è il dono della sua presenza, della comunione con Lui.
La festa di oggi ci ricordi che la santità è per tutti, è a portata di mano, perché a nessuno Dio rifiuta il suo amore.

Sia lodato Gesù Cristo!

 

+Giuseppe Pellegrini

vescovo

Pordenone
01/11/2013
33170 Pordenone, Friuli Venezia Giulia Italia