Omelia Venerdì Santo
Pordenone, 29 marzo 2013
Il giorno del venerdì santo che stiamo vivendo è un invito ad entrare con discrezione e umiltà nella sofferenza di Gesù, a entrare nel sentimento di angoscia che Gesù ha provato prima di salire sulla croce. La sua sofferenza inizia subito, all’inizio del suo ministero, quando arrivano i primi rifiuti da parte degli uomini, fino al punto massimo nell’orto del Getzemani e sul Calvario. Tutti gli evangelisti ricordano che Gesù ha pregato al Getzemani, luogo nel quale egli ha chiesto a Dio, il Padre, di allontanare il calice di dolore. Luca ricorda che sudò fino ad avere gocce di sangue tanto che un angelo gli venne accanto per confortarlo (cfr. Luca 22,43-44). La preghiera di Gesù è intensa, intrisa di angoscia e di speranza, di fiducia in Dio e di senso pieno della debolezza umana. Gesù al Getzemani prova il senso del limite umano, ma egli sta in preghiera e accoglie tale angoscia perché sa che è qui che egli può decidere la nostra salvezza.
Ma qui al Getzemani avviene qualcosa di più profondo e più radicale delle tante altre crisi che ha vissuto. Gesù va in crisi, non perché la sua proposta è stata scarsamente accolta dalla gente, ma va in crisi sulla volontà che egli ha portato avanti fino adesso. Si chiede se quello che egli ha sempre voluto, cioè fare la volontà del Padre, è quello che veramente egli vuole in questo momento ed è coincidente con la volontà di Dio. È il momento della grande crisi della propria identità e della propria missione. Infatti prega: “ Padre, se vuoi allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Luca 22,42). Dunque al Getzemani si è decisa la nostra salvezza, perché lì Gesù ha deciso umanamente e liberamente di compiere la volontà del Padre costi quel che costi. Con la scelta libera e responsabile presa al Getzemani egli ha compiuto il suo battesimo, di rimanere sempre immerso nella volontà del Padre. Quello che contempleremo nella croce non è che l’esito finale di una decisione umana, umanamente pesantissima, che il Signore ha preso in quel luogo. Ecco perché nel meditare la morte in croce di Gesù, dobbiamo ritornare al Getzemani.
La preghiera di Gesù al Getzemani è un momento della vita di Gesù che riassume in sé diversi appuntamenti della sua umanità, che riassume un momento vertice della ricerca di fede e della vita di crescita e di scoperta del volto di Dio, perché il vero volto di Dio si può vedere nella piena libertà da se stessi e dalla proprio volontà. La situazione nella quale il Signore è passato non si discosta dal cammino di ogni credente. Perché se il cammino di un credente è autentico, passa sempre attraverso una scelta di fede, che chiede di fidarsi di ciò che Dio pone davanti come migliore, anche quando si presenta con la forma della croce, con la forma della passione e della morte. Quello che ha fatto decidere Gesù di rimanere fedele al mandato del Padre e alla sua volontà è stata l’angoscia profonda che egli ha provato, nel vedere che Gerusalemme non si era convertita. Quando il Signore si trova di fronte al rifiuto e a Gerusalemme che non si converte, egli piange amaramente, perché si rende conto che questo tesoro, vaso preziosissimo che ha tra le mani potrebbe essere completamente spaccato senza che nessuno se ne accorga. È un’angoscia terribile, lui che ha fatto di tutto per salvare gli uomini, per riportarli all’unità, per far sì che possano scoprire il volto di Dio come Padre.
La scelta che invece Gesù compie liberamente, di accogliere la morte, diventa un atto pienamente libero, che permette a Gesù di manifestare il volto di Dio Padre anche nella situazione drammatica della croce, anche quando Dio non si fa sentire. Il grido di Gesù in croce ci ricorda come Dio nel momento della sua angoscia e della sua morte in croce non si fa sentire. Si era fatto sentire al battesimo e alla trasfigurazione, ma non in croce! Perché?
Gli evangelisti, tutti, ricordano un particolare: in croce Gesù dice: ho sete; tutto è compiuto; affido il mio spirito. Queste parole sono tutte citazioni di Salmi. Significa che Gesù affida l’ultimo respiro della sua vita alla Parola di Dio. Era partito da Nazareth per dire che questa parola ora si è compiuta; e nell’ultimo atto, sulla croce dove Dio non si fa sentire, affida le sue ultime parole alla Parola di Dio, l’unica capace di dare senso alla sua vita! Egli non ha altre parole per esprimere la sua fiducia e il suo grande abbandono a Dio Padre. Il Signore in croce non bestemmia Dio, non è un deluso e un arrabbiato. Rimane uno che si affida alla Parola di Dio, che è la forza di fronte ad ogni tentazione, che è il sostegno, il nutrimento di tutto il suo ministero, è l’insegnamento che egli ha dato, è l’eredità che egli consegna nel momento della morte in croce. Perché egli è la Parola, è il Logos incarnato che si è fatto uomo per essere obbediente fino alla morte e alla morte di croce (cfr. Filippesi 2,6).
Getzemani e Calvario sono profondamente uniti, ma nel Calvario contempliamo l’atto finale del dono della salvezza, perché lì davanti alla croce noi scopriamo il vero volto di Dio, il volto del Dio crocifisso che costringe l’uomo ad abbattere ogni forma di paura e di finzione. È davanti al crocifisso che l’uomo scopre quanto Dio è capace di donare se stesso, perché egli continua a dare il suo perdono, e offrire la sua vita. Dio continua a essere un Padre nei confronti del quale si può avere fiducia. Ciò che Gesù dice in croce, dunque, in modo coerente con tutta la sua vita terrena, è detto per gli uomini perché essi sappiano che in quel volto, in quella paternità rivelata dalla croce, c’è l’amore che Dio ha per tutti gli uomini. Per tutti gli uomini: sia per quelli che sono sotto la croce, sia per gli apostoli che sono fuggiti, sia per quel centurione pagano che non conosceva nulla né del giudaismo né della predicazione di Gesù, che però dice: quest’uomo da come è morto è veramente il Figlio di Dio (cfr. Matteo 27,54).
Sia lodato Gesù Cristo!
+ Giuseppe Pellegrini
vescovo