Omelia Ordinazioni Presbiterali
Cattedrale Concordia 27 giugno 2020
Carissimi Marco e Daniele, avete fatto una scelta audace e coraggiosa della Parola di Dio per la celebrazione dell’ordinazione presbiterale. Coraggiosi perché in questo modo volete dare un significato e un valore del tutto particolare al ministero che vi apprestate a ricevere per poi viverlo in un contesto storico ben preciso, segnato da difficoltà e da paure che sono ancora evidenti, in particolare la mancanza di speranza di un futuro diverso. Per la nostra diocesi siete i primi preti del dopo Covid, chiamati ad assumere uno stile di vita nuovo, originale, capaci di relazioni vere con le persone, di offrire una Parola che sa interpretare il vissuto e parlare al cuore.
L’autore della Lettera agli Ebrei, attribuisce a Gesù, per la prima volta nel N.T., il titolo di Sommo Sacerdote. Infatti, sono altri i titoli che vengono dati a Gesù nei Vangeli: maestro, profeta, figlio di Davide, dell’uomo e di Dio, perché non era della tribù di Levi, la tribù sacerdotale. Il suo fu un ministero di genere profetico e sapienziale, non sacerdotale! Approfondendo, però, il mistero di Cristo alla luce delle scritture, la lettera agli Ebrei ci dice che l’aspetto sacerdotale, non solo è presente in Cristo, anzi Lui è il solo e vero sacerdote, il Sommo Sacerdote, perché facendosi uomo rinunciò ad ogni privilegio, rendendosi simile a noi e morendo sulla croce per la nostra salvezza, aiutando coloro che ricorrono a lui. “Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo” (2,17). Affermazione che va nella direzione contraria dell’A.T., perché il sacerdote, per poter entrare in contatto con il sacro, doveva essere separato, messo da parte ed elevato al di sopra dei comuni mortali. Risulta, così, comprensibile e chiara, quanto proposto nella seconda lettura: “Ogni sommo sacerdote, infatti, è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio” (5,1), che ci aiuta a riflettere sulla natura del sacerdozio e sulla sua attuazione in Cristo. Questa definizione ci mostra chiaramente che il sacerdote è mediatore tra gli uomini e Dio, insistendo fortemente sulla solidarietà che c’è tra il sacerdote e l’umanità.
Se nell’AT il sacerdote era l’uomo del culto che sta al servizio di Dio, Gesù, invece, e con lui ogni uomo che partecipa al suo sacerdozio ministeriale, viene costituito per gli uomini. Il sacerdote viene preso tra gli uomini e costituito a favore dell’umanità. “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza per tutti” (5,8-9). Il sacramento dell’Ordine che abbiamo ricevuto e che voi ordinandi riceverete fra poco, prende il suo valore e tutta la sua efficacia dal fatto che ci mette in rapporto con la consacrazione sacerdotale di Cristo con un duplice dinamismo: di obbedienza filiale verso Dio e di solidarietà fraterna verso i fratelli. Atteggiamenti che devono sempre essere tenuti uniti e presenti nel ministero pastorale. Nella celebrazione della sua prima Messa crismale, papa Francesco ci ricordava che: “Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore”.
Carissimi Marco e Daniele, c’è un filo conduttore che lega tutto il rito di ordinazione: la stretta unione tra servizio a Dio e servizio e amore ai fratelli, “a lode di Dio e per la santificazione del popolo cristiano”. Con le parole del profeta Isaia della prima lettura, testo usato da Gesù per la sua prima predica a Nazareth, siete mandati “a portare il lieto annunzio ai poveri e a fasciare le piaghe dei cuori spezzati” (61,1). Quante ferite anche nel mondo di oggi necessitano della vostra cura e vicinanza. Mediante l’unzione delle vostre mani con il sacro Crisma, l’olio di salvezza e il profumo di Cristo, attraverso di voi dovrà scendere sulle ferite e sulle paure delle persone che incontrerete, “olio di letizia invece dell’abito di lutto” (61,3); olio che dona gioia, consolazione e che aiuta a recuperare le forze e la speranza. La partecipazione al sacerdozio di Cristo vi porta ad essere solidali con tutte le persone che incontrate e che la Chiesa vi affida, prendendo su di voi le gioie e i dolori, le fatiche e le speranze, le preoccupazioni e le loro aspirazioni, per manifestare a tutti l’amore e la misericordia di Dio. Vi invito a leggere e a scrutare con ‘sapienza’ i segni dei tempi che state vivendo, per aprirvi ad un nuovo modo di essere preti. Se qualche anno fa si parlava e si scriveva ‘preti nuovi per un mondo che cambia’, oggi è più giusto dire ‘per un mondo che è già cambiato’. Per essere ‘preti nuovi’ è necessario che, fedeli alla figura autentico di sacerdote che Gesù ha realizzato, vi conformiate quotidianamente a Lui, l’uomo nuovo che, come ha scritto sant’Ireneo “portando se stesso ha portato ogni novità” (Adversus haereses, IV,34.1) per poi vivere non a parole, ma con scelte concrete di vita, lo spirito delle Beatitudini, nella carità vicendevole, nella prossimità con chi soffre e nell’annuncio di una umanità nuova.
Permettete alcuni suggerimenti. Papa Francesco vi chiede di uscire da voi stessi. Non chiudetevi nelle vostre stanze, davanti a un computer, né chiudetevi nelle sacrestie, preoccupati eccessivamente che i riti siano solenni e impeccabili. Siate preti che camminano, che vanno tra la gente, oserei dire, preti di strada, perché è qui che oggi si possono incontrare le persone, in particolare i giovani ai quali voi, per vicinanza di età, siete chiamati ad evangelizzare. Mi fa riflettere, e spero che lo sia per voi, l’insistenza di papa Francesco sul rischio del clericalismo. “Esso nasce da una visione elitaria ed escludente della vocazione, che interpreta il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire” (Apertura Sinodo dei vescovi 2018). Vi auguro, cari ordinandi, che ogni giorno i vostri occhi brillino di gioia per il desiderio di consumarvi per gli altri e per il Signore. Non stancatevi mai di sostare ogni giorno davanti all’Eucaristia, in relazione profonda con Gesù, intercessori di amore per una umanità assetata di un futuro ricco di speranza. Mai da soli, però, ma in comunione con tutto il presbiterio. Non si è prete da soli. Chi è prete da solo, non è realmente prete – se mai un funzionario – perché mediante l’ordinazione, ci ricorda il Concilio Vaticano II, siamo uniti tra di noi da un’intima fraternità sacramentale, mediante particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità (cfr. Presbiterorum Ordinis, 8). In ogni cosa che facciamo e che diciamo, dobbiamo sempre tener conto che siamo una grande famiglia, dove regna l’amore, la comprensione e il perdono. Testimoniamo, lo dico per tutti noi consacrati, la bellezza della fraternità, dell’essere preti insieme, del seguire il Signore non da soli, ma insieme con altri, nella varietà dei doni e del carattere di ciascuno.
Carissimi Marco e Daniele, portate nel presbiterio un po’ di aria fresca, di novità. Non andate ad aumentare le fila dei brontoloni, dei lamentosi, di chi ha sempre qualcosa da ridire perché non va mai bene niente. Il segno – diceva papa Francesco – che non c’è fraternità nel presbiterio, è quando ci sono le chiacchiere, perché le chiacchiere distruggono. Anche se siete solo in due, aumentate, invece, le fila di chi si vuol bene, di chi rispetta il modo di fare dell’altro, di chi accoglie chi la pensa in modo diverso, e, se c’è da dire qualcosa, ha il coraggio di dirla in faccia, con verità e con carità.
Preghiamo gli uni per gli altri.
+ Giuseppe Pellegrini vescovo