Ritiro Clero – 6 settembre 2017

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Ritiro Clero – 6 settembre 2017

 

Non lasciamoci rubare la comunità

Ho scelto come tema della meditazione di oggi uno degli slogan che papa Francesco ci ha dato nell’Evangelii Gaudium al n. 92, perché convinto che tutto il nostro impegno e le nostre attività pastorali si fondano sulla necessità che anche noi – vescovo, preti e diaconi – dobbiamo essere cristiani convinti, contenti e credibili, gioiosi di vivere dentro la comunità cristiana e di donare tutta la nostra vita per testimoniare e annunciare il Vangelo a tutti. Uno dei compiti che ci siamo assunti nel giorno della nostra ordinazione presbiterale, lo ricordiamo bene, è di servire il popolo di Dio, aiutandolo a diventare comunità, una grande famiglia che loda, ama e serve il Signore e i fratelli. È uno degli aspetti affascinanti del nostro ministero, anche se spesso ci fa soffrire. Diamoci da fare, dunque, perché le nostre comunità siano più credibili, meno assopite e centrate su se stesse, ma aperte ed ospitali, accoglienti e aperte alla novità di Dio che ci manifesta il suo amore e la sua misericordia. Non dimentichiamo le parole del papa a Firenze: “Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta, col volto di mamma che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”. Siamo invitati ad assumere e costruire un nuovo stile di essere Chiesa. I nostri sforzi, le nostre attività e progettazioni – penso anche al cammino che stiamo facendo in merito alle Unità Pastorali e alla visita pastorale che sta per iniziare – saranno inutili se non saremo capaci di relazioni vere, autentiche e costruttive, dove l’altro è posto al centro dei nostri interessi e dove ci si sporcano le mani, con la vita e i problemi reali delle persone. Ciò che conta è che le nostre comunità siano più evangeliche, vivano secondo il vangelo, abbiano il coraggio di testimoniarlo, siano segno vivente della presenza di Gesù, della sua capacità di incontrare ogni persone in ogni situazione, vivendo il comandamento che Lui ci ha insegnato: “Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Giovanni 15, 12).

Ma per costruire una comunità cristiana così, è fondamentale da una parte accogliere il dono e l’amore di Dio e dall’altra tornare a stare bene con noi stessi, recuperando le relazioni amicali e fraterne, cammini personali condivisi con gli altri, nella comunione non solo abitudinaria o di pura funzionalità, come spesso capita, ma esistenziale, in grado di creare rapporti veri e profondi tra di noi. E questo fra di noi preti e anche con i laici. Se non partiamo da noi stessi e dalla nostra interiorità, da quello che siamo e che desideriamo essere, dalla relazione profonda e dinamica con il Signore Gesù – anche se talvolta può capitare che si affievolisca o che si smorzi –  rischiamo di correre invano e di non trovare mai nella vita un senso e un significato profondo, che ci dia gioia, pace e serenità. E anche la costruzione di una autentica comunità cristiana trova il suo punto di forza a partire proprio dal cammino di interiorità, dal silenzio che ci permette di crescere, maturare e di creare comunione e fraternità tra le persone. Anche se non è sempre facile realizzarlo.

 

Nell’Evangelii Gaudium, papa Francesco dedica a questo tema alcuni passaggi significativi. Ne ricordo due:

  • Il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo. L’autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri. Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza”. (n. 88)
  • Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. Proprio in questa epoca, e anche là dove sono un «piccolo gregge» (Lc 12,32), i discepoli del Signore sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo (cfr Mt 5,13-16). Sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice in maniera sempre nuova. Non lasciamoci rubare la comunità!” ( 92).

Vi invito, carissimi, a non aver paura di percorrere questa strada, di metterci tutti insieme in cammino sapendo che non siamo soli, che Gesù, il risorto e vivo e cammina con noi.  È quel Gesù che è presente in noi, che incontriamo ogni giorno nella celebrazione, nella sua Parola e nel servizio agli altri. È quel Gesù che ci ha attratti e appassionati nella giovinezza, che ci ha chiamati. Per Lui, abbiamo lasciato tutto; per Lui non ci siamo sposati e non ci siamo fatti una famiglia per dedicarci totalmente, con cuore indiviso ai fratelli. Gli anni sono passati e forse un po’ di caligine sta rallentando il nostro passo. Non dobbiamo temere. Lui, il risorto, ci tiene per mano e ci conduce a fare ancora della nostra vita un dono totale per la comunità che ci ha affidata.

Come spunto evangelico per la meditazione, vi suggerisco due episodi, legati tra loro perché esprimono chiaramente il motivo profondo che lega i discepoli e la comunità: l’attrazione verso Gesù risorto. Spesso anche noi, nelle nostre comunità cerchiamo vari motivi, metodi nuovi per costruire unità, comunità e comunione!  Dimenticando che l’unità e la fraternità sono un dono che Gesù vivo ci offre gratuitamente. Sta a noi tenere fisso il nostro sguardo verso di Lui, accoglierlo e farlo diventare il centro della nostra vita e delle nostre attività pastorali.

 

° Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro: Giovanni 20, 3-10

3Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. 4Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. 6Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, 7e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. 8Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. 10I discepoli perciò se ne tornarono di nuovo a casa.

 

      ° Emmaus: un cammino di appartenenza: Luca 24,13-35

3Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. 19Domandò loro: “Che cosa?”. Gli risposero: “Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”. 25Disse loro: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. 27E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. 32Ed essi dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”. 33Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”. 35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

 

Solamente alcuni brevi spunti di meditazione per lasciarci raggiungere dalla Parola e renderci disponibili ad accogliere la forza e la grazia dello Spirito che ci fa gustare la beatitudine di sentirci amati dal Signore.

^ Le due coppie di discepoli ci dicono chiaramente che al di là del nostro modo di pensare e di agire, siamo chiamati a costruire la comunità. E per costruire comunità è necessario mettersi in cammino, non accontentarci di quello che si è fatto e non scoraggiarci di fronte ai problemi e ai fallimenti ma guardare in avanti. “I discepoli del Signore – ci ha ricordato l’EG 92 – sono chiamati a vivere come comunità che sia sale della terra e luce del mondo”. Forte e provocante (perché non abituati a questo linguaggio nella predicazione) l’ammonimento del papa fatto nell’udienza generale di mercoledì 23 agosto: “Non è cristiano camminare con lo sguardo rivolto verso il basso – come fanno i maiali: sempre vanno così – senza alzare gli occhi all’orizzonte. Come se tutto il nostro cammino si spegnesse qui, nel palmo di pochi metri di viaggio; come se nella nostra vita non ci fosse nessuna meta e nessun approdo, e noi fossimo costretti ad un eterno girovagare, senza alcuna ragione per tante nostre fatiche. Questo non è cristiano”.

^ Riprendo ancora l’esperienza del “cammino”. Soffermiamoci a contemplare i discepoli che camminano. Dal dramma della divisione prodotta dallo scandalo della morte di Gesù, ricordiamo che sotto la croce c’è solo Giovanni, si passa alla gioia della testimonianza del Risorto e alla missione ecclesiale del Vangelo. Diceva papa Francesco al n. 92 dell’EG: “I discepoli sono chiamati a dare testimonianza di una appartenenza evangelizzatrice sempre nuova”. E la novità sta proprio nell’esperienza della comunità, della vita fraterna tra i credenti. La comunità, nel senso più autentico del termine, è ‘convocazione da parte di Dio’, (Qahal ecclesìa), che interpella ogni battezzato, chiamato a vivere l’universale vocazione alla santità. La Chiesa – ci ricorda il Concilio Vaticano II – è il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità con tutto il genere umano (cfr. LG 1). I due racconti evangelici ci fanno vedere l’esito di questa ‘chiamata di Dio’ e ci ricordano che la finalità del cammino di fede consiste nel condividere la propria appartenenza offrendo a tutti una speranza che non tramonta. La comunità cristiana è chiamata, dopo aver fatto esperienza della risurrezione di Gesù, a partecipare a tutti la salvezza. La predicazione apostolica diventa così il compimento della promessa fatta dal Padre, annunciata da Gesù e da lui stesso realizzata mediante l’effusione dello Spirito Santo. Un cammino che nasce dalla familiarità con Gesù che segna il passaggio dalla delusione alla illuminazione, dalla solitudine alla comunione, dallo smarrimento al ritrovamento, dalla chiusura all’apertura missionaria. La missione diventa uno straordinario processo di riedificazione di una nuova appartenenza, fondata sulla Parola e sull’Eucaristia. E così nasce la comunità, che porta alla comunione profonda con il Signore e tra di noi.

^ L’ultima sottolineatura, ve la offro con alcune domande, utili per noi preti ma anche per i laici che condividono con noi la costruzione della comunità: Cosa c’è al centro della nostra comunità? Cosa ci aggrega? Quali sono le motivazioni ‘vere’ dell’impegno che ci mettiamo per portare avanti e sostenere la nostra comunità? Cosa ci sostiene e ci anima? Siamo convinti che il nostro ministero, per essere efficace, è primariamente un ministero di comunione, che cerca sempre di favorire l’incontro, la relazione e la fraternità tra le persone?  Abbiamo visto che per i discepoli è centrale l’attrazione verso Gesù risorto, che li illumina risvegliando il loro cuore indurito e rattristato. Pietro e Giovanni non sentono nessuna voce e non vedono nessun angelo. Eppure vedendo le tracce che Gesù ha lasciato, credono. Il cammino non è ancora finito, ma sanno che è da lì che devono partire per andare e annunciare al mondo Gesù vivo e risorto. I due di Emmaus, possiamo dire così, sono più fortunati perché vengono aiutati dal risorto a comprendere i segni della sua presenza: la Parola e l’Eucaristia. Gesù apre il loro cuore all’intelligenza delle Scritture, spiegando le profezie che si riferivano a Lui. Nella semplicità di alcuni gesti è racchiuso il mistero di un incontro, con il risorto, che rinnova il dono dell’appartenenza nella fede ad una comunità. Tutti, per vie diverse, ritornano e sperimentano la gioia e la bellezza dello stare insieme. La rivelazione del Risorto culmina nell’Eucaristia, fonte e sorgente della vita cristiana.

 

Tre semplici attualizzazioni   

  1. Relazioni nuove tra di noi

Per essere costruttori di comunità e operatori di comunione, è necessario che creiamo tra noi e tra la nostra gente nuove relazioni fraterne. “Uscire da se stessi – ci ricorda papa Francesco – per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in se stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza” (EG 87). Ecco l’ideale dell’amore fraterno: “Ai cristiani di tutte le comunità del mondo desidero chiedere specialmente una testimonianza di comunione fraterna che diventi attraente e luminosa” (EG 99). Meditiamo e facciamo nostro, con serietà e profondità, le esortazioni di san Paolo ai Colossesi: “Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto” (3,12-14). Siamo convinti che sono suggerimenti ancora validi anche per noi e per il nostro ministero? Cerchiamo di viverli e di metterli in pratica? Quali sono le difficoltà che incontriamo per attuarli?

 

  1. Superare la preoccupazione del ‘fare’

Capita spesso che anche le nostre comunità si aggreghino attorno al fare. In una parrocchia c’è la festa patronale con la sagra, l’incontro con le famiglie, funerali, catechismo, il grest e i campi-scuola, …  e tanti collaboratori sono più portati alle cose materiali. E poi noi preti spesso siamo oberati, oltre che all’organizzazione di tante attività, dagli aspetti amministrativi e istituzionali, che ci fanno mettere in secondo piano la preoccupazione per la crescita spirituale della comunità. Ricordiamo che Gesù ci ha detto che prima di tutto, è importante ‘stare con Lui’. Stare prima del fare: potrebbe essere un semplice programma di vita che desideriamo fare nostro! Spesso dietro un fare agitato e inquieto c’è il desiderio di mettere se stessi al centro e non il Signore. Sarà così più difficile che le nostre parrocchie e le nostre comunità, come auspicava Giovanni Paolo II traghettando la Chiesa nel III° millennio, diventino “la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo” (NMI 43). Lo spirito di servizio, maturato nella preghiera e nel dialogo fraterno, il rispetto dell’altro e il saper mettersi all’ultimo posto, facilitano la crescita e l’armonia della comunità e permettono che al centro ci sia sempre Gesù. Ricordo che il termine comunità contiene in sé il termine ‘munus’, che non significa solo dovere, obbligo ma anche dono che si deve dare. Coloro che vivono la comunità e la comunione, devono accogliere la legge del dono, che non è tanto una costrizione o un obbligo, quanto l’esigenza intrinseca di uscire da sé per donare se stessi, per fare di se stessi e della propria vita un dono. Significato espresso molto bene da Paolo nella lettera ai Romani: “Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole” (13,8). Quali sono le vere motivazioni che stanno dietro al nostro fare? Per dare gloria a Dio o a noi stessi?

 

  1. Paura della novità

E’ proprio questa paura che ci porta a chiuderci in noi stessi. Ci si chiude nel nostro ‘comodo privato’, dove si sente di avere le spalle coperte. Talvolta è un chiuderci dentro la nostra comunità. Sappiamo tutti quanto è difficile far partire veramente le Unità Pastorali e lavorare insieme tra parrocchie, preti e laici corresponsabili del progetto pastorale. Anche se ci ha fatto un po’ sorridere, quanto è vero quello che ha scritto papa Francesco nell’Evangelii Gaudium al n. 33: “La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un saggio e realistico discernimento pastorale”. Qualcuno oggi dice che noi Chiesa, soprattutto noi in occidente, viviamo la sindrome del ‘crollo’. Pensiamo di essere giunti oramai al capolinea, che tutto vada a rotoli e che il cristianesimo stia per finire. Ecco allora la paura di cambiare, di chi la pensa in modo diverso da noi, dimenticandoci così le parole più belle e cariche di speranza che ci ha detto Gesù prima di salire al cielo: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28,20). Sono molte, oggi, le persone, anche se non è sempre facile incontrarle, che sentono un profondo desiderio e una sete di Dio, perché, lo si voglia o no, in ogni essere umano è presente il volto di Dio. A noi il compito di riscoprirlo e incontrarlo anche attraverso il volto di tanti nostri fratelli e sorelle.

Chiediamo al Signore, nella preghiera e nell’incontro con la sua presenza viva e reale, che ci doni il fuoco del suo amore e la luce della speranza, che ci trasformi in testimoni gioiosi e contenti e che ci faccia sempre gustare la bellezza di appartenere ad una comunità che ci accoglie e che ci ama.

                                                                       + Giuseppe Pellegrini

Pordenone
06/09/2017
33170 Pordenone, Friuli Venezia Giulia Italia