Ritiro del clero Santuario Madonna del Monte, 9 maggio 2019

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Ritiro del clero

Santuario Madonna del Monte, 9 maggio 2019

Così umani da essere veri preti!

 

1.     Introduzione

Carissimi confratelli, stiamo vivendo il tempo pasquale immersi nella contemplazione del volto di Cristo che, realizzato pienamente nella passione, morte e risurrezione, ce lo presenta vero Dio e vero uomo, modello di umanità con cui confrontarsi e a cui riferirsi, per rimanere costantemente in dialogo e in relazione con Lui. Siamo pure inseriti nel nostro tempo, non sempre capaci di comprendere i profondi turbamenti e le grandi inquietudini che abitano nel cuore dell’uomo moderno, travolto da repentini e significativi cambiamenti che ci portano ad interrogarci sul senso e significato da dare all’avventura umana. La modernità e la post-modernità hanno messo in profonda crisi la sintesi e i modelli che ritenevamo efficaci per la nostra vita e per l’esercizio del ministero pastorale. Il Concilio Vaticano Secondo, in particolare nella costituzione Gaudium et Spes, ha cercato di aprire un sincero dialogo con gli uomini e le donne che intendono interrogarsi sul senso da dare alla propria vita, con una significativa confessione di amore e di solidarietà per l’umanità di oggi: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (n. 1). L’attuale contesto sociale fa si che “immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le scoperte recenti. Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e l’angoscia, mentre si interrogano sull’attuale andamento del mondo” (n. 4). Il Concilio ci invita a mettere al centro della nostra vita Gesù Cristo, nel cui mistero trova vera luce il mistero dell’uomo, svelando pienamente l’uomo a se stesso, facendogli notare la sua altissima vocazione. (cfr. GS, 22). Anche a noi presbiteri, viene offerta e proposta come modello di umanità vera e realizzata, la testimonianza di vita di Gesù, pienamente uomo, soggetto ai limiti del tempo e dello spazio, alle leggi della crescita e della maturazione.

Non dobbiamo aver paura a soffermarci, a dedicare un po’ di tempo e a prestare maggior attenzione al cammino di maturazione umana che abbiamo fatto e che stiamo facendo, consapevoli che buona parte della nostra felicità e piena realizzazione della vita, così come del nostro ministero pastorale, dipendono proprio dalla nostra umanità e maturità umana. Diventa fondamentale per tutti noi recuperare la dimensione umana, nella piena consapevolezza che la strutturazione di una personalità matura è frutto di un lungo cammino che dura tutta la vita. Qualcuno afferma che è proprio nella persona del presbitero di oggi che vengono al pettine tutti i nodi della moderna società, che fa della libertà individuale il manifesto della modernità ma che dall’altra parte rende l’uomo schiavo delle mode e del consumismo imperante. Facciamo tutti l’esperienza, soprattutto quando ci incontriamo insieme, delle fatiche e del disagio che proviamo nella pastorale, sperimentando talvolta la solitudine, l’inutilità e l’insignificanza della nostra presenza, in mezzo ad una società appiattita su un presente senza futuro. Figli del nostro tempo, portiamo i segni di questa profonda contraddizione: non abbiamo paura di essere costantemente, talvolta anche troppo, connessi ad internet con i mezzi più moderni e sofisticati, ma allo stesso tempo siamo gli uomini del sacro, riproponendo riti tradizionali, che poco incidono sul vissuto delle persone e sulla società; diamo tanto tempo agli aspetti burocratici-amministrativi delle parrocchie, pur percependo che la priorità oggi deve essere data all’ascolto delle persone e all’annuncio del vangelo e dell’amore del Signore; prestiamo tante forze ed energie alla catechesi e formazione dei più piccoli, spesso con scarsi risultati, e vediamo le famiglie e i giovani allontanarsi sempre di più dalla vita della comunità cristiana. Non va mai dimenticato che l’umanità del prete è la via normale attraverso cui noi comunichiamo il messaggio di salvezza del Vangelo. Ci ricorda la Pastores dabo vobis: “Nel contatto quotidiano con gli uomini, nella condivisione della loro vita di ogni giorno, il sacerdote deve crescere e approfondire quella sensibilità umana che gli permette di comprendere i bisogni ed accogliere le richieste, di intuire le domande inespresse, di spartire le speranze e le attese, le gioie e le fatiche del vivere comune; di essere capace di incontrare tutti e di dialogare con tutti. Soprattutto conoscendo e condividendo, cioè facendo propria, l’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, dall’indigenza alla malattia, dall’emarginazione all’ignoranza, alla solitudine, alle povertà materiali e morali, il sacerdote arricchisce la propria umanità e la rende più autentica e trasparente in un crescente e appassionato amore all’uomo” (n. 72).

Carissimi, sentiamo importante la necessità di qualche cambiamento, personale e istituzionale, per essere più aderenti al Vangelo, anche se è ancora diffuso il senso di disagio e di inadeguatezza di fronte all’attuale situazione. In questa prospettiva, prende significato e valore il cammino della formazione permanente che da anni in diocesi facciamo, per aiutare a sentirci più fratelli nel presbiterio, a vivere qualche momento in più di comunione fraterna e di formazione, per affrontare insieme e con più coraggio le sfide odierne. Anche la recente proposta della Commissione per la formazione permanente del clero, che appoggio pienamente e che mi impegna in prima persona, di iniziare un processo nuovo di formazione, più attenta alla vita del presbitero e ai tempi di oggi, e che ha il suo primo momento negli incontri di ascolto dei preti suddivisi per ‘classi di età’, si inserisce in tale processo. L’impegno di diventare sacerdoti richiede una personalità che abbia fatto un lungo cammino di maturità. È importante avere una buona coesione interiore, sia sul piano psicologico che spirituale, che ci aiuti a comprendere la società d’oggi e a rispondere alle numerose e variegate situazioni degli uomini e elle donne di oggi.

 

2.     Lectio 1 Timoteo 4,12-16

12 Nessuno disprezzi la tua giovane età; ma sii di esempio ai fedeli, nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza. 13 In attesa del mio arrivo dedicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento. 14 Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri. 15 Abbi cura di queste cose, dedicati ad esse interamente, perché tutti vedano il tuo progresso. 16 Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano”.

Come riferimento biblico che posa illuminare il nostro cammino di preti e di pastori, ho scelto un brano della 1 lettera di Paolo a Timoteo. Il giovane Timoteo è aiutato da Paolo a concentrarsi su ciò che è essenziale per la sua formazione e per il suo ministero, testimoniando il suo amore al Signore e la speranza della salvezza che viene da Dio. Nei versetti 6-12, Paolo espone una concreta modalità di vivere il proprio servizio pastorale, perché esso possa risultare credibile ed efficace.

° Il v. 12 inizia spostando l’attenzione da Timoteo al suo rapporto con la comunità. In un contesto culturale dove solo gli anziani avevano diritto di parola e di guida, la giovane età di Timoteo crea problema. Di qui l’imperativo: “Sii di esempio ai fedeli”. Questo, però, non esonera Timoteo dall’impegno a compensare il disagio creato con la manifestazione di alcune virtù che lo rendano incontestabile. Gli atteggiamenti che danno corpo alla sua esemplarità sono descritti in una lista di cinque termini che coinvolgono la sfera relazionale e la maturità interiore, dove il tratto umano si intreccia con la ricchezza dell’esperienza credente: la parola rimanda alla predicazione, ma anche al conversare pacato e capace di ascolto; il comportamento si riferisce alla condotta generale di vita, al modo amabile di relazionarsi con gli altri. A livello più interiore la carità richiama l’amore fraterno con tutto il corollario di Paolo di mansuetudine, umiltà, pazienza, rispetto, compassione, amore sincero, ricerca del bene per ognuno; la fede stessa, oltra alla portata teologica, indica fedeltà e lealtà. Infine la purezza raccomanda la trasparenza e la sincerità di intenzioni, la correttezza nell’agire contro ogni forma di ipocrisia. In definitiva, Paolo ricorda a Timoteo che, per essere pastore del gregge deve essere un uomo e un cristiano maturo. Solo così potrà esercitare il ministero con autorevolezza e credibilità.

° Le indicazioni del v. 13, lettura, esortazione e insegnamento, invitano Timoteo a concentrare le sue energie al ministero della Parola, coltivando una conoscenza profonda delle Scritture, Infatti, è nella dedizione alla Parola che Timoteo gioca l’efficacia del suo ministero.

° Non è facile essere modello per la gente e avere una competenza profonda della Parola. Timoteo è invitato a trovare la forza necessaria dal dono, dal carisma ricevuto: “Non trascurare il dono che è in te” (v. 14). L’impegno di formazione e adesione al ministero richiesta a Timoteo è radicato e sostenuto da un carisma dello Spirito che ha ricevuto in forma stabile mediante l’imposizione delle mani. La responsabilità che Timoteo ha assunta è sostenuta dal dono del Signore e dalla corresponsabilità nella Chiesa, visto che il dono è stato conferito dall’apostolo accompagnato dal collegio dei presbiteri. Il dono ricevuto in un momento storico ben preciso, chiede cura e va sempre ravvivato. Il carisma si ravviva nell’esercizio ministeriale: la ricerca costante di una sanità personale e dell’equilibrio umano, la pratica della pietà, l’essere modello, l’assidua attenzione alla Parola, la capacità di farla risuonare nella vita della gente, lo sforzo di mantenere genuina la fedeltà al Vangelo (la dottrina). In definitiva non è il carisma che determina automaticamente l’abilità ministeriale, ma è quest’ultima che permette al dono ricevuto di mantenersi vivo e di crescere. Dono e impegno vanno a pari passo e lavorano in stretta sinergia.

° Nei vv. 15-16, dopo aver richiamato il fondamento, Paolo conclude con una serie di imperativi (abbi cura, dedicati, vigila, sii perseverante) che indicano la premura di evitare il pericolo di lasciarsi distrarre da cose secondarie a scapito di ciò che è il fondamento: la crescita umana e il servizio alla Parola. Solo così a Timoteo viene assicurato il ‘progresso’, sia in chiave personale che ministeriale. Le esortazioni si concludono con una promessa: la salvezza escatologica. L’orizzonte dell’impegno di Timoteo – e possiamo dire di ogni ministro nella Chiesa – pur radicato nella storia concreta e nella vita della gente, non resta chiuso nella quotidianità, ma ha un respiro più ampio, grazie all’orizzonte della speranza definitiva della salvezza. La realizzazione di ogni persona consacrata non si gioca in un orizzonte solamente ascetico e intimistico ma, facendo leva sul dono ricevuto, viene proiettata in un orizzonte più ampio di confronto continuo, paziente e rispettoso.

 

3.     Considerazioni per la nostra vita

Tutti abbiamo sperimentato che la nostra gente ci mette spesso alla prova, accorgendosi se in quello che facciamo, recitiamo o viviamo intensamente la nostra umanità. Può succedere in qualche celebrazione, quando ci sentiamo distanti dalla vita e dalle sofferenze delle persone o quando non ci siamo preparati adeguatamente, sbiascicando le solite parole; invece altre volte siamo capaci di piena immedesimazione da far trasparire il ‘mistero di Dio’ che celebriamo. Capita anche quando, sommersi da numerose incombenze, facciamo fatica a prenderci del tempo per annunciare il Vangelo o per ascoltare chi desidera confidarci dei problemi o chiedere un aiuto per la crescita spirituale.

Mi consola una constatazione, che ho recepito durante numerosi incontri, anche nella visita pastorale. È forte tra la nostra gente l’attesa e il bisogno di preti che sappiano indirizzare e generare ad una umanità vera, ad una presenza che metta in contatto con la profondità della vita e che conduca a ciò che ogni persona ha di più vero. Per questo quando un prete è scostante o arrogante, o peggio disonesto, lo si percepisce come qualcosa di così stridente da destare scandalo perché non regge più la giustificazione ‘è un uomo come tutti gli altri’. Da lui ci si aspetta che sia un prete, un vero prete, non per l’efficienza dei servizi e delle prestazioni, ma per l’autenticità, la profondità, la delicatezza del tratto, … ossia un’umanità vera! Non un uomo come tanti altri, ma un uomo vero; questo si aspetta la gente oggi! La questione, tuttavia, non è solo come ci si rapporta con le nostre fragilità e i nostri limiti. Sappiamo che fragilità e limiti ci saranno sempre, perché non dipendono da noi. A noi spetta dare un senso, un significato alla nostra umanità, quello che vogliamo essere, a partire dal riconoscimento di quello che siamo: uomini e preti di Dio, che apparteniamo a Lui, che viviamo alla sua presenza e che, se ci lasciamo guidare da lui, ci porterà alla piena realizzazione. Al di là dei nostri limiti, la gente chiede di vedere in noi, non un bravo funzionario o burocrate, né un manager o un super-uomo capace di catturare l’attenzione delle persone così da orientarle a sé, ma chiede che noi siamo un rimando a qualcosa altro, più grande di noi, a Dio che chiama e che vuole il bene di ciascuno. La gente vuole veder in noi una umanità che sia stata raggiunta da Dio attraverso il carattere dell’Ordinazione, capace di segnare in profondità e per sempre la nostra vita.

A questo riguardo, in linea con quanto Paolo raccomandava al discepolo Timoteo, mi permetto segnalare alcune caratteristiche della nostra umanità, necessarie per la vita e per l’esercizio del ministero ordinato. Ne considero tre:

  • una umanità capace di ascolto di sé e della vita delle persone,
  • una umanità capace di interiorità,
  • una umanità fatta di relazioni vere e intessuta di umiltà.

 

a)      Una umanità capace di ascolto di sé e della vita delle persone

Nella lettera agli Ebrei leggiamo: “Ogni sommo sacerdote, infatti è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio” (5,1). Concentriamoci sull’espressione ‘scelto fra gli uomini’. Il prete non si fa da sé, ma è scelto e costituito dal Signore. All’origine c’è una chiamata, che è fondamento di ciò che egli è, di ciò che è al cuore della sua umanità. È una chiamata che orienta e che dà forma a tutto ciò che egli vive. Anche noi siamo chiamati a metterci in ascolto della nostra realtà più profonda, in ascolto del nostro cuore. L’ascolto è l’attitudine fondamentale che deve trasparire nel nostro modo di essere e nel rapportarci alle persone e alle situazioni. È una chiamata da approfondire e da riscoprire per tutta la vita. La si ascolta e la si accoglie quando si ascoltano e si accolgono le domande delle persone, le loro esperienze vissute e le situazioni della vita quotidiana. La si ascolta e la si accoglie quando ci si lascia interrogare dalla vita: la propria vita e quella di chi ci sta accanto; quando ci si immerge con passione e responsabilità nella concretissima vicenda della storia delle persone, sentendosene parte fino in fondo. Ecco perché il prete è l’uomo dell’ascolto!

Ci è chiesto, innanzitutto un ascolto ‘umano’ delle persone che si accostano a noi, un saper ascoltare le domande che ci pongono, prima di dare subito delle risposte, e poi un ascolto dello Spirito Santo ponendoci in attenta obbedienza, diventando noi per primi uditori della Parola, per favorire l’incontro con il Signore. Non abbiate paura di spendere del tempo per ascoltare le persone. Le incombenze connesse al ministero vengono dopo e non possono sottrarre il tempo dedicato all’ascolto. Diceva papa Francesco il 22 ottobre 2016: “Molte volte noi non incontriamo i fratelli, pur vivendo loro accanto, soprattutto quando facciamo prevalere la nostra posizione su quella dell’altro. Non dialoghiamo quando non ascoltiamo abbastanza oppure tendiamo a interrompere l’altro per dimostrare di avere ragione. Ma quante volte, quante volte stiamo ascoltando una persona, la fermiamo e diciamo: “No! No! Non è così!“ e non lasciamo che la persona finisca di spiegare quello che vuole dire. E questo impedisce il dialogo: questa è aggressione. Il vero dialogo, invece, necessita di momenti di silenzio, in cui cogliere il dono straordinario della presenza di Dio nel fratello”.

 

b)      Una umanità capace di interiorità

Per essere capaci di ascolto, è necessario coltivare la vita interiore. Se non curiamo la nostra interiorità, rischiamo di essere prigionieri delle proprie funzioni o delle nostre abitudini, vivendo così una vita ‘immediata, senza memoria, senza progetti, senza controllo, vivendo come ‘estraniati da sé’. Una vita autenticamente umana richiede la capacità di riprendersi, rimpossessarsi, per raggiungere la propria unità interiore. Scrive Mounier: “A prima vista, questo processo pare un processo di ripiegamento. Ma questo ripiegamento non è che un momento di un movimento più complesso. L’importante non è il ripiegamento ma la concentrazione, la conversione delle forze. La persona non indietreggia se non per spiccare meglio il salto”. Solo chi è capace di questa intimità, di questo raccoglimento interiore, sa riconoscere e rispettare l’intimità dell’altro, con un’autentica comunicazione. Diceva la lettera degli Ebrei sopra citata: “costituto per il bene degli uomini”.

La vita del prete deve poter testimoniare che la vocazione, l’ascolto della chiamata che dà forma alla vita, e la risposta ad essa, richiedono un profondo discernimento, in un movimento incessante di sistole e diastole, di un ritornare in sé nel raccoglimento per avvertire i segni e la presenza dello Spirito e di dono e gratuità che porta ad essere tra gli altri, ascoltandone i bisogni, le necessità e le richieste delle persone. Papa Francesco, in molti dei suoi documenti, vede nel discernimento l’atteggiamento fondamentale da adottare. Discernere, prima di tutto, è scoprire l’orientamento profondo della vita, e si attua all’interno di una vera e profonda relazione con il Signore. Il discernimento è un movimento d’amore che porta a comprendere non solo chi sono, ma soprattutto per chi sono, per chi vivo. Ecco perché è sempre più necessario attuare il discernimento ecclesiale, perché al centro non c’è tanto il nostro benessere personale, ma al centro c’è Cristo, che ci insegna a fare della nostra vita un dono totale per gli altri.

 

c)      Una umanità fatta di relazione e intessuta di umiltà

 Il prete non è semplicemente l’uomo per gli altri, che fa qualcosa per loro. Il prete è prima di tutto, ci ricorda la lettera agli Ebrei, ‘scelto tra gli uomini’, non separatezza ma appartenenza. Una scelta che rimanda ad una profonda appartenenza all’umanità: l’essere in relazione. L’essere del prete tra gli uomini, diventa un essere con gli uomini, assumendo e condividendo in pienezza la vicenda comune dell’essere persona. È quel sapore che si avverte nei preti che stanno tra la loro gente, capaci di stare con tutti. Che non si costruiscono una cerchia di eletti, di fedelissimi. Sono quei preti che camminano per strada con la gioia e il gusto dell’incontro personale; che sanno salutare e scambiar quattro chiacchiere; quelli che non hanno fretta. Non è l’assenza di legami che rendono liberi i preti e aperti al Regno che viene, ma la forza dei legami purificati dalla tentazione del possesso. Il prete non è colui che non si lega agli altri per difendere la propria castità, ma è colui che vive e che insegna a vivere i legami vincendo la pretesa di possedere l’altro/a. Saper stare con tutti, essere tra gli altri, non significa stabilire generiche e indifferenti relazioni, vuote perché non coinvolgenti, ma significa incontrare le persone con l’amore di Dio, guardandole con gli occhi di Dio. Bella e significativa l’espressione che papa Francesco ha usato per noi preti, nella sua prima s. Messa del Crisma: “Questo io vi chiedo: siate pastori con l’odore delle pecore”. E l’odore della pecora si attacca quando il pastore sta in mezzo al suo popolo. Non si può crearlo in laboratorio.

Ma perché tutto questo sia possibile, perché possiamo vivere un ministero fatto di relazioni, ci è chiesto di essere umili. Interessanti i successivi due versetti della lettera agli Ebrei: “Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questo egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo” (5,2-3). Il sacerdote non è un superuomo; è uno che cammina verso il suo Signore insieme al suo popolo. E quando è chiamato ad essere davanti, non è mai al di sopra! Quanto mi hanno fatto meditare le parole di papa Francesco ai nuovi vescovi nel settembre 2013: “Presenza pastorale significa camminare con il Popolo di Dio: camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzarlo nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade”. L’umiltà comporta che si abbandoni ogni atteggiamento di pretesa, l’idea che quanto ci è dato ci spetti di diritto. Per essere capaci di umanità vera fatta di sane relazioni, è necessario deporre l’orgoglio che è ossessione del proprio valore e delle proprie capacità, che ci fa vedere solo noi stessi e di rivestirci di umiltà, ossia il saper accogliere l’altro per quello che è, accoglierlo come un dono, nella piena valorizzazione di quello che ci offre.

‘Scelto fra gli uomini’ è il presbitero, perché sia testimone di vera umanità, aiutato a ritrovare sempre la radice e il fondamento della sua identità di uomo e di prete. E sappiamo bene, come ci ha ricordato san Paolo, che la radice è il dono che ci è stato conferito con l’imposizione delle mani. È la radice che orienta e spinge il nostro essere e il nostro vivere verso un orizzonte di pienezza. Una pienezza di umanità che è da cercare, attendere e invocare. Una pienezza che è il Regno promesso e anticipato anche per noi, dal Signore Gesù, risorto e vivente.

 

 

+ Giuseppe Pellegrini vescovo

Aviano
09/05/2019
33081 Aviano, Friuli Venezia Giulia Italia