Ritiro spirituale del clero
Seminario Pordenone, 14 settembre 2016
La gioia della paternità spirituale
(Utile leggere e meditare il numero 4/2016 della rivista Presbyteri)
- Introduzione
Ho preso lo spunto, per il ritiro spirituale di apertura del nuovo anno formativo e pastorale, da una meditazione di papa Francesco fatta nella cappella di santa Marta il 16 giugno 2013. I sacerdoti, ricordava il papa, sono chiamati a vivere in pienezza una grazia speciale concessa loro da Dio, quella della paternità spirituale nei confronti delle persone che vengono loro affidate. Commentando il testo delle Genesi dell’alleanza di Dio con Abramo, ricordava la voglia di paternità che si trova iscritta in profondità in ogni uomo, come anche in noi sacerdoti. Cito testualmente: “Quando un uomo non ha questa voglia, qualcosa gli manca. … Tutti noi per essere maturi, dobbiamo sentire la gioia della paternità, anche noi celibi. La paternità è dare la vita agli altri, dare la vita … Per noi, sarà la paternità pastorale, la paternità spirituale: ma è dare la vita, diventare padri. E questo – prosegue ancora il papa – è una grazia che noi preti dobbiamo chiedere: la grazia della paternità pastorale e della paternità spirituale. Non avere figli spirituali, non diventare pastori, equivale a vivere una vita che non arriva alla fine, fermandosi a metà del cammino”. Sono parole che ci scuotano dal torpore che spesso ci assale, dalla delusione di tante esperienze pastorali che non sono andate a buon fine. Sono parole che ci mettono in cammino non solo verso una pienezza di umanità, ma anche verso una pienezza del nostro ministero. È vero che viviamo in una società e in una cultura caratterizzate dall’essere ‘senza padri’, dove mancano i punti di riferimento, ma non ci basta essere uomini di chiesa o addetti al culto, essere ‘preti a ore’, freddi e incapaci di relazioni calde con le persone, che amano indistintamente tutti cioè nessuno. La stessa nuova organizzazione strutturale che stiamo assumendo in diocesi, che vede un prete a servizio di più parrocchie, porta all’esercizio di un ministero più funzionale, burocratico, ‘distributore’ di sacramenti, fino a pensare che ‘basta che ci sia un prete, tanto uno vale l’altro’. Addio, così al prete-padre per far posto al prete-funzionario. Essere “padri” dice il fine ultimo del nostro ministero, perché padre è il senso del nostro cammino umano, del nostro agire ed operare nella chiesa e anche del nostro celibato. Anche se agli occhi di un estraneo può suscitare ilarità questa ‘paternità’ di celibi, accogliamo l’invito del papa a vivere in profondità la paternità spirituale, a non aver paura di essere ‘padri’. Chiediamo al Signore che ci perdoni la disobbedienza alla sua parola: “e non chiamate ‘padre’ nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste ” (Matteo 23,9), e che ci aiuti ad essere non ‘padri eterni’ ma padri, come san Giuseppe, che partecipano alla generazione alla fede di figli che gli sono affidati.
- Lectio di Giovanni 15, 1-17
1 “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.
- Meditazione
Gesù nel rivelarci la paternità di Dio ci offre un’opportunità per rileggere anche la nostra paternità pastorale e ministeriale. Siamo così invitati a vivere il nostro ministero come la forma dell’amore proprio dei discepoli: la carità pastorale. Gesù ha scelto la parola ‘padre’ come la più appropriata per esprimere la sua relazione a la sua esperienza personale con Dio; e questo appare in particolare proprio all’interno del clima del mistero pasquale. Come ci ricorda molto bene l’evangelista Marco, nel contesto dell’angosciante preghiera di fronte alla morte nel Getsemani, prende la forma di: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te” (14,36). Una relazione che si esprime nell’amore. Infatti, è proprio il grande amore del Padre che motiva l’amore di Gesù per i suoi discepoli e che ne ispira anche il modo concreto di realizzazione, come è ben espresso nel v. 9: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi”. Il Padre è tutto qualificato dall’amore, dall’agape che scaturisce dalla sua vita, dalla sua totale disponibilità che si manifesta e si rivela nell’umanità di Gesù, nel modo con il quale Gesù ama i suoi discepoli. Il movimento verticale dell’amore dal Padre a Gesù fino ai discepoli genera un movimento orizzontale, l’amore reciproco tra i discepoli che si allarga e si diffonde per tutta l’umanità. La particella causale e comparativa “come” salda il movimento verticale con quello orizzontale, affermando che il Padre è allo stesso tempo sorgente e misura dell’amore. La paternità di Dio ci rimanda alla fonte dell’amore fedele e gratuito che genera, attraverso i discepoli un amore reciproco e fraterno tra di noi.
Questo brano, riprendendo sostanzialmente alcune idee di fondo espresse nei due capitoli precedenti, è costruito attorno a quattro parole-chiavi che ne determinano l’unitarietà: Padre, rimanere, portare frutto e amare. Si può facilmente divedere in due parti: l’allegoria della vite e dei tralci (vv. 1-8) e la relativa spiegazione (vv. 9-17). La condizione per portare frutto, il criterio ultimo di giudizio è il rimanere in Gesù, rimanere nel suo amore. Da qui poi scaturisce il comandamento dell’amore che trova la sua ragione e la sua misura nella vita di Gesù. Se non si è uniti a Lui, si rimane sterili. Solo Lui è in grado di vivificare, rendere viva la nostra vita. Gesù insiste sulla reciprocità dell’amore, di amare come ha fatto lui. Non semplice scambio ma gratuità, perché ci ha amato di un amore gratuito. Amare è uscire da sé, dal proprio egoismo, perché l’amore si dilata, è fecondo e conquista il cuore degli altri. La persona umana è fatta per donarsi e si realizza perché si dona. Chi si chiude in se stesso è triste, chi si dona vive nella gioia perché possiede Dio. Se saremo capaci di imitare Dio nell’amore gratuito che Lui ci ha donato, potremo trovare la verità di noi stessi e sperimentare la gioia senza fine.
Nella vita spirituale e anche nel modo concreto che abbiamo di esercitare la nostra paternità spirituale, Gesù ci offre una legge fondamentale, un criterio necessario e indispensabile che il testo di Giovanni esprime nel v. 5b: “Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”. Tutta la vita cristiana è rinchiusa in questo imperativo: rimanete in me! Più volte, 7 per la precisione, in questo testo si ripete questa espressione rimanete nel mio amore. Rimanere indica un rapporto di comunione tra le persone. Rimanere in Gesù significa allora essere in intimità con Lui, restargli accanto. Con la stessa evidenza con la quale un ramo staccato dalla pianta non può portare frutto, anche noi se rimaniamo separati da Gesù, non possiamo portare frutto. L’amore produce sempre altro amore. L’imperativo della vita cristiana, rimanete in me ecc., scaturisce da un indicativo che lo precede, come il Padre ha amato me, come io ho amato voi! Se possiamo amare è perché Lui ci ha amati. Ma cosa deve fare un cristiano, cosa noi preti e diaconi dobbiamo fare concretamente per poter dire di rimanere in Cristo come il tralcio alla vite? Questo rimanere in Gesù, come ci ha ricordato Giovanni nei vv. 7-12 si realizza in pratica quando rimaniamo nella sua Parola, quando viviamo la Parola di Dio, quando custodiamo la Parola, abitiamo dentro la Parola; vuol dire anche osservare i suoi comandamenti che si sintetizzano concretamente nell’ amarci gli uni gli altri con un amore fraterno e vicendevole. “Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e che ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato” (1 Giovanni 3,23).
I versetti 12-17 ci ricordano che l’imperativo rimanete in me si definisce nell’imperativo amatevi scambievolmente. Il grande comandamento della comunione con Dio si realizza praticamente nella comunione e nell’amore tra di noi, un amore che non si chiude in se stesso ma si apre e si dilata fino a portare frutto. Rimanere in Cristo non è una realtà facilmente determinabile e controllabile, ma l’amore reciproco si! La certezza di rimanere in Cristo non è un sentimento o un’emozione, né una deduzione astratta; la verità è data dalla pratica dell’amore tra di noi. L’esistenza cristiana non è solo dono e servizio, ma anche comunione reciproca e fraternità gioiosa. È la gioia di un amore pieno, che si muove in tutte le direzioni: essere amati e amare; amare Dio e i fratelli. Questa è la struttura profonda di Dio e di noi esseri umani ed è la radice della vera gioia. Interessante notare che in questi versetti Giovanni, quando parla dell’amore, oltre al termine greco agapào usa anche il termine filèin, perché si tratta di un amore di vera amicizia. Filìa, per i greci, è l’amore di amicizia, fatto di slancio e tenerezza, non solo di dedizione e sacrificio. In questo modo si precisa che l’amore gratuito che Gesù ci chiede (agapào) è anche un amore amicale: “Voi siete miei amici … Non vi chiamo più servi … ma vi ho chiamato amici” (14-15). L’amore di Gesù, modello dell’amore fraterno è un amore di amicizia che sostiene un rapporto confidente tra le persone, un dialogo fraterno. Il segno più grande nell’amicizia è nello svelamento che l’amico fa all’amico dei segreti del suo cuore. L’amore di amicizia non si impone ma è risposta di adesione nella fedeltà. E Gesù, facendo partecipi i suoi dei segreti della sua vita, ha fatto capire loro che l’amicizia è un dono gratuito che viene dall’alto e che domanda una sequela senza riserve e ripensamenti. Divenire discepoli del Signore è dono, è grazie ed è elezione.
- Alcune vie per la paternità spirituale
Il soffermarci a riflettere sulla paternità di Dio, una paternità che si è fatta tutto amore, gratuità e dono, ci porta a considerare, pur tra le necessarie cautele, l’importanza che ha anche per noi e per il nostro ministero il considerarci ‘padri’, l’esercitare il nostro ministero anche da questa prospettiva. Direi necessario, in questi tempi dove siamo all’interno di una cultura che tenta di far sparire la differenza relazionale del maschile e del femminile. Se la madre genera un figlio nella carne, portandolo dentro di sé e legandolo a sé con quel cordone ombelicale che a volte è così difficile da sciogliere, il padre vive la relazione a partire da una certa distanza, forma necessaria e salutare di relazione. Se l’amore materno, di sua natura è senza limiti, quello paterno ama proprio perché sa porre dei limiti in vista di una futura crescita e autonomia. Il prete è padre non perché si arroga l’ultima parola ma perché rende i ‘figli’ capaci di parola, abilitandoli a entrare in relazione personale con il Padre dei cieli.
° Una prima via per rafforzare e consolidare una nostra possibile paternità, ci viene suggerita dal testo che stiamo meditando. I discepoli, portando frutto, sono chiamati a glorificare il Padre. Anche il Concilio, nel documento Presbiterorum Ordinis, ci ha ricordato che “il fine cui tendono i presbiteri con il loro ministero e la loro vita è la gloria di Dio Padre in Cristo” (n. 2). Glorificare significa riconoscere quello che Dio ha fatto per noi, la sua presenza e il suo amore. Nelle attività pastorali, nell’incontro con le persone siamo invitati a riconoscere non tanto la nostra bravura ma la presenza di Dio che conduce il cammino di ciascuno. S. Paolo, nella 1 Lettera ai Corinzi ci ricorda che: “Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (10,31). In ogni cosa che facciamo, non dobbiamo mettere al centro noi e le nostre capacità ma la gloria di Dio. L’autentica paternità sa promuovere la crescita e il cammino di ciascuno, sa riconoscere la forza e la presenza dello Spirito che agisce nelle persone, lasciando che ciascuno cresca nell’autentica libertà di relazione con il Padre che è nei cieli.
° La seconda indicazione sta in chiusura del vangelo di Giovanni. Gesù dopo aver dato a Simon Pietro la consegna di pascere il suo gregge, dopo averlo costituto padre e pastore delle pecore, gli rivolge l’ultima parola: “Seguimi” (20,19). L’apostolo appena incaricato del servizio pastorale che lo qualifica nella comunità del risorto, viene ricondotto all’origine irrinunciabile del cammino che deve percorrere: seguire il maestro. Non c’è paternità secondo il vangelo che nella sequela che si rinnova ogni giorno della vita, fino all’ultimo giorno. A fondare la nostra paternità spirituale e ministeriale ci sta la sequela del Signore, il rinnovarsi quotidiano dell’amore per Lui che significa rigenerare ogni giorno la nostra capacità di amare come Lui.
° L’ultima sottolineatura ci viene fortemente richiamata nel capitolo 15 di Giovanni. Siamo invitati anche noi ad assumere lo stile di vita di Gesù: rimanere nell’amore fraterno, amarsi gli uni gli altri come Gesù ci ha amato. Il ‘ricentrarsi’ sulla vita fraterna, che stiamo tentando di realizzare anche noi presbiteri e diaconi in diocesi, non risponde a esigenze gestionali della pastorale ma ci riporta direttamente al cuore del messaggio evangelico, all’amore vicendevole che viene generato dall’amore trinitario. Carissimi confratelli, solo ricreando vincoli di sincera amicizia tra di noi, quella che riscalda la casa di Betania e che cura le ferite e le fatiche, saremo in grado di accogliere e consolare, come un padre buono, le tante persone che accorrono a noi per essere ascoltate e risanate. Il dono più bello e più grande che possiamo fare alle nostre comunità non sono tanto una serie di attività, ma la testimonianza di una fraternità concretamente vissuta.
- Conclusione
In che senso un celibe vive la paternità e così poter dire qualcosa su tale aspetto? Come può uno che ha scelto di rinunciare alla coniugalità e alla paternità farsi chiamare padre? Il celibe vive la paternità non come ‘il generare’ in forza della propria potenzialità ma unicamente in forza della fede, come grazia che viene da Dio. È il mistero iscritto anche nella paternità fisica: quel figlio che hai generato, è tuo figlio, ma è stato donato da Dio e tu lo generi completamente solo quando lo ricevi come dono dall’alto. Ce lo insegna l’esperienza di Abramo e del figlio Isacco che lo riceve pienamente da Dio sul monte Oreb. Dio chiama anche oggi alla paternità spirituale degli uomini che pur facendo esperienza della loro impotenza e fragilità, si mettono alla sua sequela per generare alla fede, nella libertà, dei figli di Dio.
+ Giuseppe Pellegrini
vescovo