PEM: LA TESTIMONIANZA DI ANNA

Non nego che buttare giù nero su bianco la nostra esperienza in Tanzania faccia riaffiorare in me tutte le emozioni, la pace, i silenzi e i tramonti che abbiamo vissuto noi giovani in quei 20 giorni di un agosto indimenticabile.
Dopo un percorso di preparazione iniziato lo scorso novembre, il PEM, abbiamo investito la nostra estate in questo viaggio, chi con tante aspettative, chi meno, chi con un po’ ansia e chi, come me, fino al giorno prima non voleva più partire. Avevo paura di non essere all’altezza, di non riuscire a confrontarmi con una cultura e un modo di vivere tanto diverso dal mio, ma appena arrivati nella parrocchia di Kitanewa, l’accoglienza di Baba Salvatore (fidei donum di Catania) e dei guerrieri Maasai ha fatto crescere in me un senso di pace che faccio ancora fatica a descrivere.
È bastato quel “Benvenuti a casa!” a fare sparire tutti i dubbi e le incertezze che mi ero portata sulle spalle dall’Italia e ho capito che per tre settimane potevo allontanarmi dalla frenesia del mondo occidentale.
L’Africa è un paese pieno di contraddizioni con cui abbiamo dovuto imparare a convivere e che ci hanno fatto pensare e riflettere tanto durante la nostra permanenza in Tanzania, ma è anche un paese che ti riempie il cuore di gratitudine, quasi fino a farlo scoppiare. Il modo di vivere della gente del villaggio è disarmante, la loro felicità immisurabile che si scontra con quel poco che hanno, il loro continuo sorridere alla vita nonostante le sfide che ogni giorno si trovano ad affrontare, dalla fame alle malattie.
Noi giovani pensavamo di andare ad aiutare (d’altronde andando in Africa è un po’ quello che tutti si immaginano), ma la verità è che più di dipingere banchi, pareti e spazzare la polvere, non abbiamo “fatto” tanto di concreto. Nel villaggio abbiamo giocato con i bambini, gli abbiamo insegnato ‘La macarena’ e ‘Il coccodrillo come fa?’, abbiamo sfidato all’ultimo sangue i Masai a calcio e biliardino e abbiamo distribuito tante, tante, tante caramelle.
I primi giorni continuavamo a chiedere a don Salvatore e ad Alex “domani che programmi abbiamo?” perché sentivamo la necessità avere orari da rispettare, cose da fare, posti da visitare ecc. Tante volte la risposta era semplicemente “domani vediamo”. Con il passare dei giorni abbiamo imparato a “stare” e ad “essere” senza sentire il bisogno di “fare”.
Il rientro è stata forse la fase più difficile di questo viaggio, ci ho messo un po’ a digerire tutto quello che ho visto e provato, ancora adesso a distanza di due mesi sento un nodo alla gola e qualche lacrima scendere sulle guance.
Il mal d’Africa non è una leggenda, è reale e l’ho sentito ancora prima di partire per il viaggio di ritorno: non è semplice nostalgia, è qualcosa che nasce da dentro, non dalla testa, ma dal cuore; è essere felici di niente, emozionarsi davanti ad un tramonto o sotto un cielo stellato. Sì, perché in Africa le stelle sono più luminose e belle, la luna puoi quasi sfiorarla e il cielo sembra più grande.

Anna